La sindrome del "quarto potere"
Le interferenze (e le connessioni) tra informazione ed evento politico costituiscono un dato inconfutabile assunto dagli analisti. Emblematico - per indicare la svolta palese ed esemplare avvenuta nel rapporto tra informazione e potere - è il ricorso al medesimo episodio, ma con prospettive diverse(1), oppure ad episodi di natura simile ma in contesti e con significati addirittura contrapposti per quanto riguarda la relazione col potere, giudiziario o politico che sia(2). Insomma vengono di volta in volta esaltati il potere dell'informazione contrapposto al potere istituzionale, o all'opposto la manipolabilità dell'informazione, usata da uno dei poteri per manipolare a sua volta la pubblica opinione ed indirizzarne la sovranità nel senso desiderato, contribuendo a creare comunque il mito, ed al tempo stesso la sindrome, del "Quarto potere".
In realtà, come ha acutamente notato Sidoti, a proposito dell'azione apparentemente totale dell'informazione nel Watergate, «le dimissioni di Nixon furono un successo di tutto il sistema americano di pesi, contrappesi, controlli, poteri separati e bilanciati, e innanzitutto della magistratura»(3), ridimensionando il ruolo "apolitico" della stampa; o come, a proposito di "Mani pulite", ha notato Morrione, secondo il quale «II ruolo dell'informazione, scritta e audiovisiva, fu allora sostanzialmente subalterno, come peraltro, salvo alcune eccezioni, era stato per molti anni, quando il sistema della corruzione si era formato e consolidato fino a farsi metastasi diffusa, senza essere avvertito, denunciato, ne tanto meno esplorato, perché investiva potentati politici ed economici»(4). Proprio in seguito al manifestarsi di insidie, non sempre però chiaramente percepibili, ed al rischio del venir meno della funzione civile rassicurante garantito da una informazione libera da ogni condizionamento di potere (editoriale, politico, giudiziario), è venuto affermandosi lo stereotipo della libertà di informazione senza limiti e censure, che ha inevitabilmente prodotto anche i suoi figli snaturati, lo scandalismo, il sensazionalismo, la conquista di fette di mercato e di ascolti ad ogni costo. Allo stereotipo della libertà di informazione come garanzia della libertà generale è così immediatamente succeduto un altro, che intende porre argini al sensazionalismo giornalistico e in genere mediatico che umilia le persone, amplificando perfino l'orrore, fino a indurre la riscoperta del bisogno di limiti e di vincoli definiti da orientamenti etici precisi in materia di informazione(5).
La sindrome del "grande fratello" (quello di Orwell)
Di fronte alla televisione-spazzatura che tutto tritura, al grande circo mediatico che tutto assoggetta agli indici di ascolto e agli introiti pubblicitari, alla informazione fagocitata dall'intrattenimento, sorgono infine dubbi e perplessità, che rivendicano il rispetto dei principi fondamentali di civiltà e del diritto al rispetto per gli individui. Infatti in numerose, ma troppo frequentemente retoriche, invocazioni al rispetto della persona - in nome naturalmente della ritrovata esigenza di etica nella comunicazione - si è sentito lamentare che lo scandalismo ed il sensazionalismo costituirebbero l'unico principio ispiratore della comunicazione e ancor più della informazione del nostro tempo a causa della concorrenza non regolata e della libertà che viene animata solo dalle leggi del mercato dell'intrattenimento(6).
Viene così di fatto messa sotto accusa direttamente la libertà di informazione, dichiarata incapace di liberarsi dall'insidia della notizia ad ogni costo, anche se urlata senza ritegno, se orrida, se travisata fino alla manipolazione scorretta e fonte di ingiustizia. Di fatto il sensazionalismo viene interpretato in questa ottica come un carattere inevitabile assunto da un sistema dell'informazione che ha annullato ogni distinzione con lo spettacolo puro, e che quindi non può fare a meno di ricorrere alla estremizzazione urlata di ogni notizia, al fine di affermarsi sul mercato, o di aumentare gli indici di ascolto, o di pesare nel gioco delle influenze tra poteri (che non sono più certo i pesi e i contrappesi della democrazia). I contemporanei richiami ad una misura etica (autoimposta o eterodiretta che sia) da applicare nell'informazione da un lato e all'incomprimibile pluralismo (garanzia di effettiva libertà) dall'altro devono scontare il diffìcile equilibrio che la continua oscillazione tra le due affermazioni comporta (si osservi il vivace dibattito sorto intorno al messaggio inviato al Parlamento dal Presidente della Repubblica).
La tentazione più forte è quella di contrapporre - invocando la superiorità morale e civile di una simile scelta - ad una libertà priva di indirizzi etici il dovere della responsabilità dell 'informazione, fondata senza incertezze sul rispetto della persona - principio fondativo ed essenziale delle società democratiche e costituzionalmente regolate(7) - la quale si tradurrebbe senza sforzo in una nuova stagione dell'informazione, capace di rispettare quel diritto alla riservatezza (la privacy) che costituisce l'invalicabile frontiera dei diritti individuali fondamentali.
La questione è in realtà meno semplice di quanto possa desumersi da queste affermazioni e non può essere circoscritta alla sola informazione, ma riferita alla comunicazione in generale quale elemento essenziale delle nuove società, in cui anzi il tradizionale rapporto di rappresentanza politica, e i modi della circolazione delle idee e della formazione dell'opinione sociale e politica, soggiacciono proprio ai meccanismi e a nuovi "percorsi" imposti dalla comunicazione di massa. Lo stesso principio della sovranità popolare ne risulta profondamente modificato, come hanno sottolineato studi più o meno approfonditi, come quelli, ad esempio, sulla "videocrazia"(8), una volta constatata l'esistenza di interessi cospicui nella gestione dell'informazione, che finiscono per rendere "politica" tutta la comunicazione e per discriminare irrimediabilmente i cittadini privi di opportunità e mezzi, ridotti a puri destinatari di messaggi di ogni "genere".
Il paradosso che si verifica è rilevabile nel rovesciamento dello stereotipo corrente: in realtà proprio la libertà dell'informazione può essere utilizzata (in nome della privacy invocabile da chi è in grado di manipolare l'informazione, e quindi attraverso essa l'opinione pubblica) a tutela di privilegi o di interessi di gruppo o di individui, impegnati a celare eventualmente i propri comportamenti (emissivi o attivi) di carattere antisociale. Rovesciando il tradizionale stereotipo sulla libertà di informazione argine ai potenti e svelatrice di inganni, la responsabilità dell'informazione invece assumerebbe l'opposta e capovolta funzione di tutela dell'interesse collettivo alla verità, capace cioè di contribuire ad assicurare l'espletamento delle libertà individuali e collettive, come quello cui contribuisce una informazione capace di non guardare in faccia nessuno (si pensi ancora al Watergate) per assicurare la trasparenza dell'informazione e della comunicazione come presidio delle libertà democratiche e della linearità della circolazione delle informazioni necessarie alla formazione dell'opinione pubblica.
La comunicazione istituzionale tra diritto alla privacy e dovere della trasparenza
L'entrata in vigore della legge n. 150 del 7 giugno 2000 - preparata dal D.Lgs. n. 29 del 1993 - è stata salutata con enfasi, individuando nella norma quasi unanimemente una "aggiunta" di democrazia e di partecipazione per i cittadini(9), grazie all'obbligo imposto alle pubbliche amministrazioni di apprestare attività di comunicazione per informare convenientemente la popolazione interessata e rendere più immediatamente "fruibili" i prodotti dell'azione pubblica (Portavoce, Ufficio Stampa, Ufficio per le relazioni con il Pubblico)(10). A parte l'ispirazione vagamente "consumeristica" che si potrebbe essere indotti a sospettare nell'innovazione, non è comunque questa sede il luogo opportuno per soffermarsi sulle amare disillusioni, registrate da molti autorevoli osservatori delle dinamiche della vita pubblica, che hanno sottolineato la funzione prevalentemente corporativa e talvolta clientelare assolta dalla legge.
E' assai frequente la denuncia del fatto che l'assunzione di una nuova specie di fùnzionari pubblici, sotto la spinta della necessità di creare un clima di perfetta intesa tra Amministrazioni e corporazione dei giornalisti (che dovrebbero invece sempre conservare intatta la libertà ed indipendenza di vagliare le azioni del pubblico potere), finisca per indirizzare l'attività dei nuovi organi verso una mera funzione propagandistica (che è altro da quella informativa) assolta dagli uffici stampa nelle operazioni di "immagine" che sembrano costituire una parte importante negli impegni delle istituzioni politiche centrali e locali(11). E' più interessante invece dirigere l'attenzione sulle funzioni auspicate dalla legge, e mettere in luce la possibile, conseguente, oggettiva collisione minacciata dall'affermazione contemporanea di due differenti principi, affermatisi entrambi come capisaldi della difesa del cittadino: il diritto alla privacy da un lato, il diritto alla trasparenza dell'azione pubblica ed amministrativa dall'altro. In tempi di democrazia a rischio nell'età digitale (Internet, Posta elettronica, Echelon)(12) la tutela della privacy sembrerebbe ricondurre ad un obiettivo unitario la complessità esplosa con lo sviluppo della comunicazione (benché, una volta dichiarato, il compito si presenti tutt'altro che facile)(13), mentre invece essa può generare contraddizioni capaci di comportare insidie inestricabili per il sempre esaltato principio della sovranità popolare, fondamentale per le società democratiche, ma sempre più messo in discussione dalla modificazione dei processi di formazione dell'opinione pubblica(14).
L'accentuazione di uno dei due poli della dinamica individuo/società (la ricerca di un equilibrio della quale ha sempre costituito la croce e la delizia della filosofìa politica) appare particolarmente rischioso nella comunicazione pubblica, laddove si spinga o nella direziono della tutela della privacy o in quella della trasparenza ed imparzialità dei poteri pubblici. Ad esempio l'operato della P.A. non prevede solo deliberazioni relative ad attività collettive, per le quali la costante informazione al pubblico (non affidata solo ad albi e messaggi troppo spesso riservati e semi-clandestini) è parte essenziale del trasparente funzionamento delle pubbliche istituzioni, ma riguarda anche decisioni relative agli interessi personali e alla condizione dei cittadini (concorsi, esami, licenze, provvidenze personali, incarichi professionali e semi-professionali) o - direttamente o indirettamente - degli stessi amministratori.
Questo vasto ambito - che ha riempito biblioteche di analisi politologiche sul clientelismo politico e acceso discussioni infinite sulla commistione tra interessi privati e "interessamenti" dei pubblici poteri - è garantito solo dalla pubblicità massima degli atti e dalla crescente trasparenza che può assicurare il funzionamento corretto dei meccanismi della democrazia (non riducibile mai alla sola libertà di elezioni). Al di là delle possibilità concrete consentite dalla legge 241 del 1990 sull'accesso agli atti amministrativi e ai documenti della P.A., il significato storico della norma ha riguardato l'accettazione - spesso anche soltanto di carattere simbolico - da parte degli organi pubblici di un maggiore tasso di democrazia e di partecipazione alle fasi istituzionali, comunque superiore rispetto alla "riservatezza" dei percorsi decisionali che tradizionalmente precludeva ogni controllo collettivo. Proprio l'espressione partecipazione viene significativamente usata (art.7 della L. 241, relativo al principio del giusto procedimento) per definire il diritto di sostenere le proprie ragioni o contrastare quelle altrui con memorie da inserire nella propria pratica o in quella di altri soggetti.
Risulta evidente il bisogno di riaffermare attraverso la partecipazione il principio di imparzialità della Pubblica Amministrazione e di ogni azione pubblica. Questo caposaldo rappresentato dalla trasparenza però contrasta con l'altro giudicato essenziale e confortato da crescente considerazione collettiva: il principio della privacy che garantisce il trattamento riservato dei dati personali. La pubblicazione coram populo dei deliberati della P.A. o dei risultati scolastici ha sempre costituito un deterrente ed una remora per il nepotismo, i favoritismi, la corruzione, giacché la verifica pubblica impone il rispetto di forme e controlli incrociati reciproci, a garanzia dell'imparzialità della funzione pubblica espletata. La garanzia della privacy - esibita ad ogni passo - potrebbe mettere a rischio proprio questo passaggio essenziale di una società di eguali almeno nel diritto anche in perduranti condizioni di disuguaglianze di fatto. Il controllo dei mezzi di comunicazione può infatti facilmente trasformare il rispetto della privacy in protezione dei potenti e dei personaggi pubblici, con una evidente ricaduta nella censura, anzi nell'autocensura.
Il diritto alla privacy appare pertanto fondamentale per le garanzie individuali in una società democratica, ma solo se inserito all'intemo di un quadro nel quale non può mai venir meno il dovere di assicurare necessariamente, in ogni momento la trasparenza degli atti pubblici. Se il criterio, reso in questa prospettiva finalmente equilibrato, può contribuire a definire per grandi linee cosa debba intendersi per etica della comunicazione pubblica, occorre chiedersi se in questo modo non si debba pervenire però con maggior fondamento a delineare piuttosto una etica pubblica della comunicazione, istituzionale o meno che sia.
Oligarchia della comunicazione e diritto all'eguaglianza
Se infatti la crescita dello spazio della comunicazione nella vita sociale contemporanea può insidiare le condizioni stesse della democrazia(15), il problema non può essere affrontato rinchiudendo l'etica della comunicazione in un recinto tematicamente circoscritto, ma riconducendo la questione specifica della comunicazione alla più complessiva discussione sull'etica pubblica nello Stato di diritto (quali che siano le trasformazioni cui esso va incontro). Non a caso Jurgen Habermas - che riveste un ruolo rilevante negli studi recenti e meno recenti sull'etica della comunicazione - nell'occuparsi con grande preveggenza quattro decenni fa della storia dell'opinione pubblica, scriveva che lo Stato di diritto si impegna ad assicurare «istituzionalmente la connessione tra legge e opinione pubblica», dal momento che in questo Stato «l'opinione pubblica è contrapposta senz'altro all'arbitrio e sottoposta alle leggi immanenti del pubblico dibattito dei privati».
La questione presenta profili particolarmente intriganti allorché si constata che comunicazione, comunque, appare dominata da una oligarchia, che può assumere connotati diversi. La prospettiva è inquietante, sia quando l'oligarchia privata entra apertamente in conflitto con il pubblico insidiandone di fatto le prerogative (si pensi allo scontro Bill Gates/Amministrazione statunitense), sia quando si formi una oligarchia per emanazione del potere pubblico, chiamata ad un servizio collettivo (l'informazione come servizio pubblico), ma tanto più esposta ala manipolazione quanto più funzionale all'esercizio del potere (e dell'arbitrio). Per non parlare neppure per cenni dell'uso e delle conseguenze della comunicazione e della informazione economica persino sulla tenuta finanziaria degli Stati, o del marketing come attività di comunicazione politica(16).
Evidentemente il nodo non può essere sciolto da mere invocazioni "buoniste" di ricorso all'etica (non meglio precisata) come via di salvezza per una comunicazione insidiata da interessi di parte e da manipolazione sistematica. I richiami generici al pluralismo e contemporaneamente al rispetti dei limiti etici costituiscono al più un programma d'impegno o uno scopo dichiarato piuttosto che la soluzione del problema.
La configurazione di una etica della (o piuttosto nella) comunicazione non è assicurata di per sé ne dalla informazione pluralista e soggetta alla concorrenza (libera perché sostenuta dal mercato e dal consenso popolare) ne dalla moltiplicazione di codici deontologici o da legislazioni di quadro o di "contenimento". Piuttosto la ricerca di una etica della comunicazione che non arretri di fronte ai temi prima indicati, e non fondata sulla indifferenza etica degli ordinamenti sociali e giuridici. Invece tale ricerca deve andare nella direzione della riferibilità etica della comunicazione ad una premessa identitaria comune(17), formulata ad un livello più generale di quello della sola comunicazione (cioè: la comunicazione di fronte allo Stato di diritto, all'eguaglianza dei cittadini, alla accettazione di comuni valori posti a fondamento della comunità).
Insomma va definita una etica pubblica della comunicazione, cioè riferita al più generale contesto sociale, economico, giuridico-istituzionale, nel quale la comunicazione si inserisce, influenzandone i meccanismi, piuttosto che una etica della comunicazione intesa come pura etica speciale, applicabile indifferentemente alla sfera pubblica come agli altri infiniti ambiti della comunicazione.
NOTE
1) Cfr. R. MORRIONE, Di chi è l'informazione ?, in «Matrix», A. I., n. 1, gennaio-marzo 2002, pp. 41-42: «Accadde negli anni '60 dopo la fine della guerra nel Vietnam. La stessa stampa e i broadcaster televisivi americani, che di quel drammatico conflitto avevano vissuto per anni facendone la propria fortuna commerciale, ma contribuendo in modo determinante a indurre i governanti di Washington a percorrere la via del negoziato, dopo la Conferenza di Parigi e il traumatico ritomo a casa dei reduci, spensero le luci. Furono riaccese solo a corrente alternata quando riapparvero nella cronaca eventi che, in qualche modo, toccavano direttamente la vita e gli interessi degli americani: per l'esodo dei boatpeople verso le coste degli Stati Uniti o con gli interrogativi, alimentati puntualmente nel corso delle elezioni presidenziali, sulla sorte di militari che si supponevano prigionieri nel Vietnam riunifìcato»; F. SIDOTI, Il giornalismo investigativo. Storia ed esperienze straniere, in «Desk», A. I, n. 1, 2002, scrive in relazione ai medesimi eventi che «La decisione di pubblicare i Pentagon Papers (che rivelarono alcune scomodissime verità sul Vietnam, ad esempio, l'incidente sul golfo di Tonchino che aveva dato il via all'inizio dei bombardamenti era invenato di sana pianta) nel 1971». Si tratta di due articoli esemplari nel trattare la questione dell'influenza reciproca tra potere politico ed informazione.
2) Cfr. R. MORRIONE, Op. cit., p. 43: «Quando esplosero le inchieste dei giudici su Tangentopoli, l'informazione sembrò appiattirsi sul potere giudiziario, esaltando acriticamente, secondo il consueto meccanismo della spettacolarità, il protagonismo di singoli giudici, alimentando sentimenti giustizialisti ed emotivi nell'opinione pubblica, che contribuirono alla caduta di un ceto dirigente e ai successivi mutamenti negli equilibri politici»;F. SIDOTI, Op. cit., p. 14: "Katharine Graham ha avuto il glorioso merito di rimanere indipendente in un'età di omogeneizzazione, difendendo i valori del dovere e del coraggio, mettendo a rischio la stessa esistenza di tutta la sua fortuna. Nixon aveva minacciato conseguenze se il Washington Post avesse continuato l'inchiesta sullo scandalo Watergate e in particolare sui tentativi della Casa Bianca di nascondere le proprie responsabilità.(...) Secondo alcuni, le cose stanno in parte diversamente da come vengono rappresentate da una retorica ormai consolidata: uno dei segreti meglio custoditi della storia americana recente è relativo alla identificazione della mitica "Gola Profonda", al tempo dello scandalo Wartergate».
3) F. SIDOTI, Op. cit., p. 14.
4) R. MORRIONE, Op. cit.. p. 43.
5) Non è possibile in questa sede sintetizzare il dibattito svoltosi negli ultimi tempi sul sensazionalismo nella comunicazione. A tal proposito è di grande interesse leggere le annotazioni storiche contenute nel già citato testo di F. Sidoti.
6) Cfr. le osservazioni formulate da E. LORITO, Informazione e libertà. Privacy e tutela della persona, Salemo, CUES, 2001, in specie il Cap. II della Parte prima. Informazione ed etica: un necessario connubio, che invoca «regole che regolino un mercato che è in piena evoluzione, dominato sempre più da gruppi di potere economico, dagli indici d'ascolto o dalle opinioni dei politici», cosicché «siamo consapevoli del fatto che la comunicazione rappresenta oggi un campo su cui si giocherà una partita fondamentale per le sorti della libertà complessivamente data» (pp. 41 e 40). E' interessante che a tal proposito l'A. faccia riferimento alla convinzione che l'informazione e la comunicazione non siano assimilabili «ad una mercé qualsiasi, ne ad una funzione meramente privata, ma piuttosto ad un "pubblico mandato ", ad un "offentliche Aufgabe "» (G. ZIZOLA, L'informazione tra etica e mercato, in AA.W, La notizia a confronto con l'etica, a cura di S. PRIVITERA- G. VECCHIO, Acireale, Istituto Siciliano di Bioetica, 1999, p. 45. Il volume presenta spunti di grande interesse sulla tematica in oggetto, e ad esso di rinvia per la bibliografìa pubblicata alle pp. 186-190.
7) Cfr. sul tema G.P. CALABRO', Valori supremi e legalità costituzionale. Diritti della persona e democrazia pluralistica, Torino, Giappichelli, 1999.
8) Cfr. G. SARTORI, Homo videns. Bari, Laterza, 1999.
9) Cfr. S. SEPE, Comunicazione istituzionale e modernizzazione del sistema pubblico, in «Sviluppo economico», vol. 5, numero unico, gennaio-dicembre 2001, pp. 73-89.
10) Cfr. M. DI MARTINO, II patto tra cittadinanza e Pubblica Amministrazione: la Carta dei Servizi, in «Sviluppo economico», cit., in specie pp. 97 ss.
11)Cfr. S. SEPE, Op. cit., pp. 84 ss.
12) Sul "controllo elettronico" cfr. E. LORITO, Op. cit.,p. 97 ss. (sul "caso Silverman").
13) Rilevante è il contributo fornito alla questione da Stefano Rodotà come studioso e nella guida dell'Autorità in materia di privacy. Per l'impostazione del problema cfr. S. RODOTÀ', Tecnologie e diritti, Bologna, II Mulino, 1994.
14) Mi permetto di rinviare a G. AGOCELLA, L'etica della polis e le forbici poetiche.Etica della comunicazione e crisi della democrazia, in «Matrix», A. II, n. 2, 2002,pp. Cfr. anche quanto osserva E. LORITO, Op. cit., p. 40: «come dar seguito al principio di responsabilità in realtà democratiche dove forti sono le forze che tendono a controllare e rimuovere la coscienza sociale, svuotando, altresì, la capacità creativa di milioni di cittadini sparsi per il globo ?».
15) Cfr. G. AGOCELLA, Op. cit.,
16) Sul tema mi limito a indicare P.L. SCANDIZZO, Comunicazione e informazione economica: gli strumenti per l'interpretazione del reale e la formazione della coscienza collettiva, in «Sviluppo economico», cit., pp. 41-59; G. MAZZOLENI, La comunicazione elettorale in Italia: dalla politica al marketing, in «Studi meridionali», n. 5 - 2001, pp.147-151.
17) Cfr. F. VIOLA, Identità e comunità. Il senso morale della politica, Milano, Vita e pensiero, 1999, in particolare il Cap. IV, La cittadinanza come etica pubblica, pp. 93 ss.