A 106 anni dalla nascita dello scrittore di Mogliano Veneto, di cui l'editore Neri Pozza sta ripubblicando le opere, Panorama.it ripercorre la parabola umana e culturale di una delle personalità più affascinanti della letteratura italiana del secondo Novecento. Da Il cielo è rosso, a Il brigante, da Il male oscuro, a La Fantarca, da Anonimo veneziano alle riflessioni sulla Calabria, Giuseppe Berto (1914-1978) ha impersonato la figura dell’intellettuale che fa i conti con la sua stessa esistenza dolorosa, sin dentro le pieghe più intime della propria anima, agitata da tristezza (in abbondanza) e gioia (a macchia di leopardo). Dopo essere approdato sul promontorio calabrese di Capo Vaticano, decise di stabilirvi il suo buen retiro. Per l’eternità…

                                                             
La figlia Antonia: « Mio padre ha sempre amato il Sud e la Calabria e lottò per difenderli in tutti i modi ».

Il critico letterario Lupo: « Negli anni della polarizzazione ideologica scelse di rimanere un battitore libero »

Prologo biografico
Nato il 27 dicembre del 1914 a Mogliano Veneto, nel trevigiano, in quella pianura posta a ridosso della Serenissima, costellata dalle splendide ville con cui i veneziani, a metà del Cinquecento, abbellirono l’entroterra, Giuseppe Berto fu primo di cinque figli maschi di Ernesto, carabiniere in congedo, e Nerina Peschiutta. Si avvicinò agli studi classici, prima nel Collegio Salesiano Astori della sua cittadina, dimostrando passione per discipline letterarie, poi nel liceo Antonio Canova di Treviso concluso, al contrario con scarso impegno. Le crescenti difficoltà economiche familiari anche in vista del percorso universitario, ed il tormentato e mai risolto rapporto col padre, segnarono indelebilmente la sua esperienza personale e letteraria: si arruolò nel Regio Esercito con destinazione la Sicilia e si iscrisse, comunque, alla Facoltà di Lettere a Padova, anche se, raccontano i biografi, maestri del calibro di Concetto Marchesi e Manara Valgimigli, pare avessero fatto poca breccia nei suoi vivaci vent’anni. Prima volontario in Abissinia, -ritornò in Italia anche per laurearsi nel 1940, avvicinandosi all’insegnamento- poi di nuovo al fronte in Africa settentrionale dopo la sconfitta di  El Alamein, fu fatto prigioniero nel 1943 e trasferito in Texas.  
Gli esordi letterari, da detenuto, in Texas
Fu durante la prigionia nel campo di internati di Hereford, in Texas dove, dopo l’8 settembre 1943, fu relegato con il critico letterario Gaetano Tumiati, il magistrato e scrittore Dante Troisi, e i pittori Ervardo Fioravanti e Alberto Burri, che Giuseppe Berto maturò una nuova spinta alla sua predisposizione letteraria, vedendo rinascere, con la scrittura, quella passione inconscia e frustrata nella sua giovinezza. La permanenza forzata americana, intanto, lo aveva messo in contatto con le penne più vive di quella stagione letteraria, da John Steinbeck con il suo Furore ai racconti di Ernest Hemingway che, da maestri del genere introspettivo, una volta ritornato in patria nel febbraio del 1946, avrebbero contribuito a ricondurre ad unità la sua forza compositiva. Anche grazie ad un editore illuminato.  
L’incontro con Longanesi
La mutazione prospettica capitò con il romanzo La perduta gente, pubblicato tra il Natale del ‘46 e il Capodanno del ’47, col titolo inatteso e foriero di novità de « Il cielo è rosso », dal quale ricavò immediato successo personale ed editoriale. « Soltanto quando lo vide nelle vetrine dei librai, Berto seppe che Longanesi l’aveva intitolato Il cielo è rosso: era un titolo bellissimo e astuto, che magari aveva poco a che fare col testo ma restava immediatamente impresso in chi lo vedeva. Berto sa che una parte non piccola del successo del romanzo è dovuta a quel titolo », scriverà lo stesso autore a proposito di quella singolare circostanza. Vinse il « Premio Firenze per la letteratura » nel 1948, assegnato da giurati del calibro di Attilio Momigliano, Eugenio Montale ed Aldo Palazzeschi, e non mancò neanche la recensione dello stesso Hemingway nel 1958. E sarà un regista all’esordio nel 1950, Claudio Gora, a trarne il film omonimo, una trasposizione « corretta e cinematograficamente pregevole, della crisi di una generazione sopravvissuta alla guerra », come ricorderà il critico cinematografico Gianni Rondolino, nel suo Catalogo Bolaffi del cinema.
Tra neorealismo e Calabria sognata
Agli inizi degli anni Cinquanta, all’apice di quella fase comunemente definita « neorealistica » della sua produzione, Berto iniziava ad interessarsi di una terra lontana per collocazione geografica e sentire culturale: la Calabria era regione marginale per la maggior parte dei connazionali dell’epoca e, come se non bastasse, ambientò il suo romanzo « neorealista » per eccellenza nel cuore stesso degli sperduti boschi della Sila, l’antica « Hyle » dei greci. «L’ambiente e l’epoca hanno, naturalmente, una grande importanza nella struttura del romanzo: la regione in cui si svolge la vicenda, in primo luogo, è una terra dove un secolare immobilismo sociale ha esasperato le condizioni di vita degli abitanti, scavando un abisso tra la massa dei poveri e dei diseredati, vittime dell’ignoranza e predestinati allo sfruttamento, e la classe ristretta dei proprietari, i padroni dei latifondi che vivono lontano, chiusi nella loro superbia di gente ricca » Lo interpretò cosi, quel romanzo, Federico Roncoroni scrittore e saggista comasco, studioso dell’Ottocento e del Novecento, curatore di diverse edizioni di classici italiani e di una celeberrima edizione della grammatica della lingua italiana, inquadrando la struttura narrativa de « Il brigante » in un’edizione del 1989. Il protagonista diventerà il paladino dei deboli e degli oppressi, di quella popolazione contadina calabrese che Berto, in fondo, contribuirà a redimere ed a porre all’attenzione del dibattito nazionale: il « Time » lo definì « uno dei più belli e tragici romanzi che siano comparsi da anni » e l’abile pellicola di Renato Castellani, nel 1961, lo traspose sul grande schermo, amplificando il suo messaggio catartico. E lo stesso altopiano silano conobbe la sua celebrità, evidenziata da Guido Piovene, nel 1963, all’esito di una delle sue peregrinazioni italiche, per il quale sembrava« essere caduti in un angolo della Scandinavia, con i pini silani più alti e snelli degli abeti nordici ».
Dal romanzo cinematografico al trasferimento in Calabria
E così, Berto dopo aver girato « palmo a palmo tutte le coste dell’Italia Meridionale », anche per trovare sollievo da uno stato psico-fisico sempre più instabile, nel 1957 incontrò finalmente, proprio in Calabria, il suo intimo Genius loci, « violento e armonioso e non ancora toccato dagli uomini »: si innamorò perdutamente di due ettari di terreno incolto, a strapiombo sul mare, acquistati per 300 mila lire, grazie ad un prestito alla Cassa degli scrittori. A vendergli il podere un contadino del luogo, Nicola La Sorba, la cui unica preoccupazione era quella di costituire la dote della figlia in vista delle imminenti nozze. « Appena la vidi seppi che quella terra, dalla quale si scorgevano magiche isole, era la mia seconda terra, e qui son venuto a vivere », scrisse ne Il male oscuro. « Sto su un promontorio alto sul mare, è un panorama stupendo. E quando il giorno, dalla punta del mio promontorio, guardo gli scogli e le spiaggette cento metri sotto, e il mare limpidissimo si fa subito blu profondo, so di trovarmi in uno dei luoghi più belli della terra ». Sarebbe rinato, a partire dalla firma del rogito, il 19 gennaio del 1957: ad accompagnarlo su quel « Capo de Roca » calabrese, il regista torinese Vittorio Sabel, contagiato a sua volta dal fascino di quei luoghi. Le cronache locali ricordano un veneto ed un piemontese intenti ad animare quello sperduto costone, dormendo su un tavolaccio di legno e preparandosi a turno i pasti. Sabel, che stava conducendo importanti inchieste nel Meridione d’Italia, sarebbe morto suicida a Roma il 7 luglio del 1989 e venne tumulato nel piccolo cimitero di San Nicolò di Ricadi, su quello stesso promontorio, lasciando in eredità, alla comunità locale, tutti i suoi beni per sostenere progetti di aiuto all’infanzia.

Capo Vaticano e « Il male oscuro »                                      
« L’isola degli aranci sta dall’altra parte, celeste e gialla e un poco verde nella sua breve lontananza, e in mezzo c'è un piccolo tratto di mare, proprio piccolo ma non ho il coraggio di passarlo, padre non ho coraggio, (...) e del resto non tutti coloro che volevano la terra promessa poterono giungervi, non tutti furono degni della sua stabile perfezione, e così, verso sera, cerco un posto da dove si possa guardare la Sicilia: di notte l’altra costa è una lunghissima distesa di lampadine con segnali rossi e bianchi (...). Ecco, qui mi costruirò con le mie mani un rifugio di pietre (...) e penso che in conclusione potrebbe andar bene come luogo della mia vita e della mia morte ». Nelle pagine de « Il male oscuro » c’è tutto il senso di attesa ed incanto per la nuova vita appena iniziata lungo la Costa degli Dei, una cinquantina di chilometri tra Pizzo Calabro a Nicotera (oggi in provincia di Vibo Valentia, nda), con il mar Tirreno a fare da palcoscenico alle Isole Eolie ed all’Etna innevato.

I ricordi di Antonia, la figlia

« Mio padre ha sempre amato il sud e quando nel 1955 scoprì Capo Vaticano, dopo essersi affacciato dal promontorio, scrisse di trovarsi « (…) in uno dei luoghi più belli della terra (…) »>> racconta la figlia Antonia, che dopo aver passato più della metà della sua vita negli Stati Uniti, è tornata in Italia e si lascia andare ai ricordi, proprio da Capo Vaticano, in questo inizio del nuovo anno.
Vivevate in simbiosi con la natura
« A quei tempi non c’era né luce né acqua: i primi anni li passavamo in tenda, il paesaggio era incontaminato, c’erano solo i fichi d’india, le ginestre, la vigna e gli alberi di fico. Il mare era cristallino, le spiagge di sabbia bianca erano circondate dalle affascinanti scogliere di granito »
Un impegno morale, il suo
« Papà vedeva la bellezza della Calabria sublimarsi nell’agricoltura e nel turismo: nel 1968, proprio di fronte a Stromboli dove il Capo termina prima di lasciare spazio al mare e all’orizzonte, costruì il « Capo Club di Capo Vaticano », la prima discoteca della zona. Proteggendo la macchia mediterranea »
Poi il boom edilizio
« Agli inizi degli anni ‘70 iniziò la speculazione selvaggia della Calabria e mio padre lottò per difenderla, promuovendo l’attuazione di un piano regolatore: nel 1977 organizzò proprio sul « Capo » una mostra di arte contadina per denunciarne la progressiva scomparsa e scrisse pure un libretto, « Intorno alla Calabria » che voleva fosse « un atto di accusa per i calabresi, e un atto di amore per la Calabria » »
Ritorniamo al Berto tra regime e guerra
« Papà si convinse a partire volontario in Abissinia nel ‘35 e poi ancora nel ‘42 per Misurata, più per sfuggire alla famiglia ed alla grigia e asfissiante monotonia della provincia, che per reali convinzioni ideologiche » 
E gli diedero del fascista…
« Per questa sua scelta, e per le sue posizioni libere e insofferenti a qualsiasi schema precostituito venne spesso tacciato di essere uomo di destra.  Figuriamoci! Mio padre descrisse il fascismo come un insieme di retorica, faziosità, illiberalità e violenza, come una lotta tra due princìpi di libertà e giustizia. Nulla di più lontano da lui e dalle sue convinzioni, l’ideologia fascista »
Ancora oggi?
« A chi ancora considera mio padre un uomo di destra, consiglio di leggere o rileggere « Guerra in camicia nera » da poco nuovamente in libreria con l’eccellente introduzione di Domenico Scarpa »
Se lo immagina suo padre prigioniero in Texas?
« Lo vedo fieramente amico legato a Tumiati, Troisi e Fioravanti, artisti ed intellettuali che avevano fondato la rivista « Argomenti » e che gli chiesero di collaborare, visti i suoi studi letterari. Nacquero, in carcere, romanzi come « Le Opere di Dio » e « Il cielo è rosso » »
Anelava la libertà
« E’ sempre stato un uomo libero, ne ho ammirato l’onestà e la responsabilità che si voleva addossare per esprimere le proprie idee »
Responsabilità pagata a caro prezzo
« Divenne oggetto di un ingiustificato ostracismo da parte dell’establishment culturale che mai gli perdonò le sue scelte giovanili, pur avendole invece giustificate in tutti coloro che, per tornaconto personale, avevano rinnegato il proprio passato rifiutandosi di fare i conti con il fascismo e con la storia della nostra nazione »
Difficile vivere così
« Ha sicuramente dovuto lavorare ed andare avanti con più fatica e con maggior forza interiore di altri, nutrendosi della sua ironia e del suo grande « sense of humor » per combattere la retorica e soprattutto la nevrosi che lo attanagliava »
Storico lo scontro con Moravia
« Durante il Premio Formentor del 1962, papà e Sergio Saviane sostenevano La vita agra di Luciano Bianciardi e denunciarono le manovre di Alberto Moravia per favorire L’età del malessere della giovane e sconosciuta Dacia Maraini, sua nuova compagna di vita »
Hemingway lo apprezzava
« Nel marzo del 1954, il grande scrittore statunitense, intervistato da Eugenio Montale, sostenne che Berto, con Pavese e Vittorini, fosse uno dei grandi scrittori italiani. Ma neanche questo magico endorsement gli rese la vita più facile »
Non era gradito alla cultura egemone, evidentemente
« Sebbene condannato dall’establishment di sinistra a non avere voce in capitolo, mio padre otteneva sempre un enorme successo di pubblico, perché i suoi lettori lo amavano e le sue opere si aggiudicavano numerosi premi letterari »
Uno scrittore « pop »
« Parlava e scriveva di temi che, nella seconda parte del ‘900, prendevano piede mettendo al centro l’individuo e la sua personalità »
Finalmente il riscatto
« Ci ha pensato Cesare De Michelis, scomparso nel 2018, fondatore della Marsilio ed emerito di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova. A suo dire papà rimaneva uno dei più grandi scrittori del secondo Novecento se non addirittura il più grande… »
E la ristampa delle sue opere
« L’editore Neri Pozza, grazie al direttore editoriale Giuseppe Russo, ha di recente intrapreso un approfondito lavoro di rilettura critica dell’opera: memorabile lo scritto di Emanuele Trevi in chiusura della riedizione de « Il Male Oscuro » del 2016 »
« Il male oscuro »: una bella rivincita.
« Vide la luce nel 1964, probabilmente l’anno clou della sua carriera letteraria: rifiutato in precedenza da più di un editore, si aggiudicò in una sola settimana i premi « Viareggio » e « Campiello » »
Un caso letterario, indubbiamente  
« Rilesse la sua vita, attraverso un percorso psicoanalitico, alla ricerca delle radici della propria sofferenza: e rivoluzionò le strutture narrative del romanzo in un contesto classico e contemporaneo al contempo » 
In che modo?
« Utilizzò il flusso di coscienza, senza interposizioni narrative, che toglie il fiato al lettore e lo inchioda alle pagine come se fosse l’autobiografia di tutti. Maestri in ciò erano Virginia Woolf, Thomas Eliot, Jack Kerouac, William Faulkner, Luigi Pirandello, Guido Piovene ed Italo Svevo » 
Chi è Antonia Berto?
« Sono la combattiva figlia dell’amore di Bepi e mia madre Manuela Perroni, scomparsa proprio quest’anno, il 20 febbraio. Si erano conosciuti a Roma, in piazza del Popolo, nei primi anni ’50 e si sposarono nel ‘54. Mamma era 18 anni più giovane di papà »  
Un bel caratterino, da giovane.
« Ho vissuto un periodo da estremista, ho fatto parte della sinistra extraparlamentare e mi vedevo, se mi si fosse presentata l’occasione, in Cina per fare la rivoluzione culturale: bisogna sempre contestualizzare le scelte »
La Fantarca
Nel 1965 Berto ritorna in libreria con un testo a dir poco sorprendente, La Fantarca, romanzo ironico che mise a nudo le paure generazionali della metà degli anni Sessanta: sarà il regista modenese Vittorio Cottafavi a farne uno sceneggiato per la tv, con Berto ai comandi, cullato dalle sonorità di Roman Vlad. Scienza, toni favolistici, modernità, inquietudini e speranze, proiettate nel mondo della fantasia: è Berto stesso a guidare metaforicamente il lettore-spettatore alla scoperta del pianeta-Terra ormai sull’orlo dell’implosione, separato in due da un muro (il Muro di Berlino?) che aveva il compito di tutelare gli abitanti dal furore bellico delle loro stesse armi. In compagnia del comandante Don Ciccio, della vedova Esterina che lo ama di nascosto, di Lopresti e Caroniti, a rappresentare passato, presente e futuro di un’umanità in cui i contadini e i diseredati del Sud, imbarcati sull’astronave con i loro stessi animali, si salveranno e salveranno la razza umana, debellando la forza prevaricatrice del potere umano.

Anonimo veneziano
Ancora 12 mesi ed Enrico Maria Salerno, attore pronto a cimentarsi con la macchina da presa, bussa alla porta di Berto con la richiesta di una sceneggiatura per un film che avrebbe preso la forma e la sostanza di Anonimo veneziano. Prima la pellicola, poi il romanzo, pubblicato nel 1976, dopo che nel 1971 aveva visto la luce anche una versione teatrale, un testo drammatico in due atti. Scritti i dialoghi e consegnati all’esordiente regista nel 1967, Berto fu costretto ad affrontare anche la serrata critica che faceva leva sulla contemporanea uscita del celeberrimo romanzo di Erich Segal Love Story, quando in realtà non fosse poi così difficile appurare che i dialoghi di Berto avessero anticipato di qualche anno quelli dell’autore americano. Love Story ebbe un successo planetario, ma Berto l’aveva preceduto. Enrico -Tony Musante- un oboista della Fenice di Venezia che non era riuscito a diventare un grande direttore d’orchestra come sperava, dopo aver appreso di essere ammalato di un tumore incurabile, decide di invitare a Venezia l’ex moglie Valeria -Florinda Bolkan- che accetta nonostante il timore che la richiesta possa rivelarsi un tentativo di riconciliazione. Al loro ultimo incontro, Stelvio Cipriani dedicherà una delle più intense colonne sonore della storia della cinematografia italiana, consegnando all’immortalità la loro storia d’amore
Intorno alla Calabria
Esattamente venti anni dopo la folgorazione per la sua Capo Vaticano, nel 1977 Berto pubblica uno scritto destinato a lasciare il segno: quel suo « Intorno alla Calabria. Scritti diversi di autori diversi che si pubblicano in occasione della mostra di oggetti e sculture di civiltà contadina organizzata a Capo Vaticano nell’osteria Angiolone da Giuseppe Berto », si impone per la lucidità della analisi socio-antropologia e per quell’amore appassionato che nutriva, lui veneto, per la penisola calabrese. Inserito nel 1990 nelle pagine dell’affascinante volume « Calabria e Lucania. I luoghi, le arti, le lettere » da un illuminato editore milanese come Vanni Scheiwiller (1934-1999), che al paesaggio fisico ed interiore della Calabria, stava dedicando pagine di assoluto  pregio letterario, quella riflessione impressionò per la precisione chirurgica della sua analisi, attuale come non mai: « (…) La Calabria sarebbe potuta diventare il paese di un turismo nuovo, colto, civile, un luogo di recupero spirituale per tutta la gente estenuata dalle nevrosi, dalle intossicazioni degli arrampicamenti, dal consumo e dall’industrializzazione che ormai fanno malata più di mezza Europa. Invece i calabresi, appena tirata fuori la testa dalla miseria, si sono messi a distruggere il proprio passato -anche gli alberi, le case, il paesaggio- con un accanimento che l’avidità, l’ignoranza e l’ansia di portarsi al più presto all’altezza di Jesolo e di Busto Arsizio, non bastano da sole a spiegare. Bisogna cercare nell’inconscio (…) ». Berto invitava a capire perché « (…) i calabresi si sono venduti l’anima per un piatto di lenticchie (…) ». Un capolavoro partorito in appena tre mesi in quella vecchia casa contadina di Capo Vaticano, che ancora oggi si nasconde tra i pini mediterranei piantati con le sue mani, a dominare il mare a strapiombo, per ammirare l’inconfondibile orlo delle Eolie all’orizzonte.
Il Premio Giuseppe Berto
Fondato a Mogliano Veneto, nel trevigiano, sua città natale, nel 1988, da un gruppo di amici ed estimatori dell’autore, tra cui, Giancarlo Vigorelli, Michel David, Cesare De Michelis, Dante Troisi, Gaetano Tumiati e dalla moglie Manuela, il Premio si propone non solo di commemorare lo scrittore, ma di valorizzare autori al loro primo romanzo, che mostrino elementi di assoluta originalità di forma e di schiettezza di ispirazione. Il fatto stesso che Berto, benché autore di grandi successi, fosse a lungo stato ignorato dalla critica ufficiale per il suo straordinario anticonformismo, mostra il senso più intimo della manifestazione che mantiene l’alternanza tra Ricadi e Mogliano Veneto, continuando ad annoverare giurati quali Cesare De Michelis, Dante Troisi, Gaetano Tumiati, Michele Prisco, Luigi Lombardi Satriani, David Maria Turoldo, Massimo Fini, Luca Doninelli, Vito Teti, Nico Orengo, Natalia Aspesi, Corrado Augias, Folco Quilici, Marcello Staglieno, Giuseppe Lupo, Andrea Cortellessa, Antonio D’Orrico.

Il ricordo di Giuseppe Lupo, il critico letterario

« Anomalo il destino a cui è andata incontro l’opera di Giuseppe Berto: può apparire un paradosso, ma è ciò che si è verificato>>, fa notare Giuseppe Lupo, associato di letteratura italiana alla Cattolica di Milano, vincitore nel 2001 del Premio Berto con il suo romanzo d’esordio « L’americano di Celenne », oggi membro della stessa giuria e trionfatore, nel 2011, del Premio Campiello-Selezione giuria dei letterati con L’ultima sposa di Palmira »
Destino amaro
« Comune sia a quel sentimento di sofferenza che ritroviamo nelle sue pagine -perfino in quelle apertamente ironiche- e sia a quella cortina di isolamento che lo ha praticamente recluso per molti anni, anche dopo la morte, nonostante quella doppietta di vittorie, ancor oggi stupefacente, che centrò nel 1964, ai premi Campiello e Viareggio, con Il male oscuro, il suo capolavoro »
Le ragioni di questa anomalia?
« Nella tipicità degli scrittori che hanno intrapreso la strada dell’originalità o della non omologazione, ovvero nell’abitare la dimensione dei profeti inascoltati. Gli capitò sin da subito, con Il cielo è rosso »
Contro le sirene della politica?
« Quando l’engagement era di moda, Berto non si munì di tessere di partito, non militò in movimenti culturali, rimanendo estraneo alle rotte attraverso cui transitavano le fortune letterarie di molti suoi coetanei »
Anche tra gli anni Cinquanta e Settanta, con la forte polarizzazione ideologica?
« All’epoca, per sopravvivere, bisognava accreditarsi presso una fazione politica, magari indovinando la più potente e quindi la più conveniente. Scelse, invece, di rimanere fuori da questa logica, divenendo un battitore libero »
Irregolare ed ignorato.
« Nonostante gli sperimentalismi adottati ne Il male oscuro. Guardato con sospetto tanto dai marxisti (che gli non hanno mai perdonato il suo diario Guerra in camicia nera) quanto dai cattolici, per i quali era e resta uno scrittore fortemente votato al dissenso »
Coerente sino alla fine?
« Berto non avrebbe rinunciato al suo modus vivendi nemmeno alla fine, nel suo testamento: La gloria (1978), rappresenta un vero e proprio monumento al vangelo degli sconfitti, risposta controversa al dramma sacro della colpa e della redenzione »
Pesarono le sue radici?
« È molto probabile che in un libro così profondo e disperato, che rappresenta il culmine di una lunga indagine su Dio, avessero inciso le origini di chi aveva respirato l’aria cattolica e contadina veneta »
Riallineamento finale?
« Intanto Berto chiude i conti con i fantasmi della sua vita: la minaccia del padre (da cui forse allontanarsi e guarire per vie psicanalitiche), il « male di vivere », l’alienazione »
Giuda che racconta al mondo il gesto di tradire Cristo…
« Giuda è l’archetipo di un processo identitario, esperienza di faticosa solitudine a cui sono chiamati tutti gli uomini sin dall’alba dei tempi, anche i non credenti, posti di fronte al mistero del divino e del soprannaturale »
Berto fa luce sugli ultimi, allora.
« Aveva ritrovato la gioia di scrivere in un campo di deportazione militare nel deserto del Texas, ed era più che convinto che anche il più debole dei prigionieri, anche il più indifendibile dei peccatori avesse il suo diritto alla redenzione »
E Berto si è redento?
« Ha preferito farsi da parte, eleggere a dimora uno sperduto angolo di Calabria, a sua volta sperduta regione dell’Italia post-bellica e da quel remoto avamposto di paradiso si è messo a contemplare la civiltà lasciata alle spalle. E, insieme con essa, la sua catastrofe annunciata »
Epilogo con provocazione
Quel « rifugio di pietre », come Berto aveva definito il suo umile ritiro in terra calabra, ospitando spesso amici e scrittori, oggi si è trasformato nel festival « Estate a Casa Berto » che continua ad attrarre intellettuali da ogni dove. Ideato dalla figlia Antonia, dalla scrittrice Jo Lattari e dall’editor Marco Mottolese, coinvolge giornalisti, scrittori e artisti in conversazioni su temi culturali, serate di spettacolo e proiezioni. « L’idea -racconta ancora la figlia Antonia- è nata nel periodo in cui l’editore Neri Pozza stava cominciando a ristampare le opere di papà che tanto aveva amato quel promontorio, individuando nell’agricoltura e nel turismo le due ricchezze della Calabria, e combattendo, nel 1977, contro la cementificazione di queste coste »
Evidentemente le sue donchisciottesche battaglie sono servite, all’indomani della sua scomparsa il 1 novembre del 1978, a far scoprire il senso più intimo e segreto di una regione, ancor oggi, un mistero irrisolto. Per i calabresi, soprattutto…


Panorama.it                                                             Egidio Lorito, 04/01/2021

Torna su