Le recenti indagini sulle «logge coperte» a Scalea e a Lamezia confermano la validità delle storiche intuizioni di Agostino Cordova, il primo magistrato a istruire un maxi-processo alla 'ndrangheta nel 1992. Come racconta in quest'intervista, l'allora capo della Procura di Palmi aveva portato alla luce i legami indicibili fra massoneria deviata e colletti bianchi.
«Ho sempre fatto il mio dovere, in termini rigorosamente obiettivi e verificabili, ma le conseguenze delle mie iniziative giudiziarie continuano a turbarmi». Nell'anno in cui compirà 85 anni, Agostino Cordova, calabrese purosangue («Reggino, lo sottolinei, mi raccomando!»), per tutti «Il mastino», tenta un bilancio di una vita al servizio dello Stato. Un'esistenza passata nell'alveo dell'obbedienza alla Carta costituzionale e ai codici, dei quali ancor oggi si considera paladino e strenuo difensore, soprattutto dopo aver operato in territori nei quali quello stesso Stato, in alcuni momenti, sembrava avesse rinunciato a mettere piede. Tanto nella sua Reggio Calabria, in cui esordì appena ventisettenne, quanto a Napoli, dove diresse con mano ferma la Procura partenopea. Per ritrovarsi, nel 1992, candidato a dirigere la nascente Superprocura nazionale antimafia, in corsa con Giovanni Falcone.

Un percorso impervio, con gravi ripercussioni personali e familiari che rimangono testimoni dell'impegno profuso a muso duro. 'Ndrangheta e camorra, massoneria deviata nazionale e internazionale, malaffare nelle istituzioni, corruzioni. E ancora, scontro con i poteri deviati, drammatiche audizioni al Csm e in Commissione parlamentare antimafia, il plauso e le invidie dell'ambiente giudiziario, le vittorie (molte e dalle gioie contenute) e le sconfitte (poche, con le immancabili aggressioni). Inchieste da far tremare i polsi, insomma.
Panorama.it lo ha incontrato per un dialogo serrato, caratterizzato da ricordi lucidissimi, da quell'inconfondibile e marcata "doppia r", figlia di un legame mai reciso con la Città dello Stretto e da una costante profetica: le sue inchieste hanno anticipato sempre i tempi, aprendo la via ad importanti riforme penali e spianandola, nel contempo, alle successive roboanti indagini mediaticamente esplosive. In fondo la «masso-mafia» fu una sua scoperta, appena 50 anni addietro, e «l'effetto rimbalzo», ancora in Calabria, è notizia proprio delle ultime ore: la Procura di Paola, nel cosentino, contesta anche la violazione della legge Anselmi a tre dei 18 indagati per un'inchiesta su una presunta associazione a delinquere finalizzata a commettere una «serie indeterminata di reati contro la pubblica amministrazione». Dalla turbativa d'asta alla corruzione passando per il falso, il procuratore capo Pierpaolo Bruni ed i sostituti Maria Francesca Cerchiara e Antonia Lepre avrebbero accertato anche che l'organizzazione avesse scelto un bar di Scalea per le proprie riunioni. Non proprio Villa Wanda, in quel di Arezzo, ma pare ce ne sia per fare cattivi pensieri. Ancora.

Dottor Cordova, il suo nome torna alla ribalta con cadenza impressionante.
«Il mio nome torna ripetutamente alla ribalta unicamente perché tornano di attualità le vicende di cui mi sono occupato, e non per esibizionismo».
Successe con le inchieste di De Magistris tra il 2005 e il 2008 e ora con quelle di Gratteri.
«Tali inchieste sono la riproduzione di quella mia del 1992, il che significa che la situazione è, evidentemente, rimasta immutata dopo tanto tempo».
Ce lo confessi: cosa avevano di straordinario le sue indagini?
«Lo straordinario era la natura dei fatti su cui indagavo, riscoperti per ultimo ora dopo 29 anni a Lamezia Terme, ancora in Calabria».
Aveva visto giusto…
«Avevo fatto il mio dovere di Pubblico ministero».
A proposito: è esistito un metodo-Cordova?
«Il mio metodo era quello di far osservare obbligatoriamente la Legge perseguendo coloro che la violavano, come dispone l'art. 112 della Costituzione, secondo cui il Pubblico ministero deve doverosamente esercitare l'azione penale quando abbia notizie di reato. Quel mio "metodo" sarebbe stato seguito da coloro che osservavano quella norma».
Nel 2017 Enzo Ciconte, uno fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose, ascoltato in Commissione parlamentare antimafia, aveva rievocato proprio la sua celebre inchiesta sulla masso-mafia del 1992.
«Ha avuto il coraggio di farlo».
E l'allora presidente della Commissione, Rosy Bindi, intese valutare la proposta di mettere mano al suo lavoro.
«È vero, ma ignoro quali siano state le sue iniziative e l'esito di esse».
Ci fu chi scrisse, invece, che quell'inchiesta si fosse risolta in una bolla di sapone.
«È bene precisare che mi occupai della massoneriadeviata e non di quella regolare, di cui in passato avevano fatto parte addirittura Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini, Giosuè Carducci, Ugo Foscolo, Giovanni Pascoli, Alessandro Manzoni, Gabriele D'Annunzio. Altro che…».
Ci spieghi.
«Visto che nel quasi assoluto silenzio generale tali censure mi vengono ancora rivolte, ritengo necessario chiarire, ancora una volta, come quell'inchiesta venne avviata e quale parte io abbia avuto nel suo svolgimento. Altro che "bolla di sapone"».
Come Pubblico ministero non poteva non aprire quel fascicolo.
«Iniziai il procedimento doverosamente sotto il dettato dell'art. 112 della Costituzione, che, ripeto, obbliga il magistrato del pubblico ministero ad esercitare l'azione penale: sulla base delle dichiarazioni di numerosi pentiti e di ancora più numerose persone informate sui fatti non potevo non agire in quel senso. E molte Procure collaborarono con noi di Palmi».
A proposito di pentiti.
«Si trattava di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone, Leonardo Messina, Gaspare Mutolo: resero importanti dichiarazioni, nel 1992, innanzi alla Commissione parlamentare antimafia: quei verbali sono pubblici e girano ancora sulla Rete».
Ovvero?
«Riferirono, fra l'altro, sui rapporti tra massoneria deviata e Cosa Nostra, su diversi procedimenti aggiustati tramite la prima, sul procacciamento di voti mafiosi, sull'interesse comune di Cosa Nostra, politica e massoneria deviata per gli appalti, su una Loggia che aveva chiesto che due mafiosi per ogni provincia entrassero a far parte della massoneria per influenzare pubblici personaggi».
Massoneria deviata e invasiva.
«Non dimentichiamo che anche nell'inchiesta milanese "Mani Pulite", 39 indagati erano massoni e sette ex piduisti».
La sua celebre inchiesta «Mani segrete» durò un anno.
«Nelle funzioni di Procuratore di Palmi la iscrissi il 16 ottobre del 1992 contro ignoti, per trasformarsi contro "noti" nel marzo successivo e me ne occupai formalmente fino al 6 ottobre del 1993, quando fui trasferito a Napoli».
Appena un anno per un'inchiesta di tale spessore?
«Anche meno, se calcoliamo le ferie, le audizioni al Csm e le due alla Commissione antimafia, la preparazione delle relative relazioni, la trattazione di diversi altri importanti procedimenti. E ci fu pure un clamoroso ritardo».
In che senso?
«Per oltre tre mesi, a causa della mancata autorizzazione a custodire, a Roma, l'enorme numero di atti acquisiti, non essendo la sede della Procura di Palmi dotata di locali sufficienti in cui custodirli».
Immaginiamo il carico giudiziario di quei mesi.
«La Procura di Palmi doveva occuparsi anche del gran numero di procedimenti pretorili per i quali era stata istituita la Procura della Repubblica presso la Pretura circondariale ed erano stati nominati magistrati e personale: ma proprio nel dicembre di quell'anno, cioè due mesi dopo l'inizio del procedimento, quella "nuova" Procura, mai entrata in funzione, venne soppressa».
Effetto della soppressione?
«Un enorme aggravio di lavoro, tant'è vero che dei sei sostituti applicati per l'indagine sulla Massoneria, tre dovettero occuparsi degli altri procedimenti. In quei mesi, i miei detrattori, contrariamente alla realtà, sostennero che a causa delle indagini sulla Massoneria stavo trascurando un gran numero di altri procedimenti. E i successivi sei applicati, diversi dai primi, dovettero esaminare nuovamente gli atti. Altro che trascuratezza e scarso impegno dei miei sostituti!».
E le indagini furono trasferite a Roma.
«Il procedimento venne trasmesso a Roma l'8 giugno del 1994 e archiviato il 3 luglio del 2000 su richiesta, nel dicembre 1997, dei Pubblici ministeri della Capitale: ignoro ancora i motivi di tale trasmissione, che comunque ormai non mi riguardano più».
Non è che stesse scoperchiando qualche pentolone?
«Lo ripeto: si tratta di argomento che non mi riguarda più, così come quello relativo alle indagini svolte a Palmi dopo il mio trasferimento, e poi a Roma. Il nuovo Procuratore si insediò nella cittadina reggina 12 giorni dopo l'anzidetta trasmissione».
Clamorosa la motivazione dell'archiviazione.
«La motivazione per 48 dei 63 indagati, fu che "per tutti gli altri indagati, alcuni dei quali iscritti nel registro, per la consistenza del materiale loro sequestrato o per la loro dichiarata appartenenza massonica, non sono emersi elementi significativi e concludenti in merito ai reati ipotizzati"».
Ma fu certificata la competenza della Procura di Palmi.
«Sia il Riesame che la Cassazione avevano confermato la competenza di Palmi in base all'art. 9 comma 3 del Codice di procedura penale, visto che era stata proprio la mia Procura ad aver iscritto per prima la notizia di reato e, quindi, il relativo procedimento».
Le diedero ragione anche i nuovi colleghi di Roma.
«Sia i due Pubblici ministeri romani cui passò l'inchiesta che il Giudice per le indagini preliminari diedero atto che tale trasmissione non era sorta su loro iniziativa! Ancor oggi ignoro quale elemento nuovo, che abbia spostato la competenza a Roma, sia sopravvenuto dopo il mio trasferimento».
E venne ascoltato in Commissione parlamentare antimafia.
«Sì, il 9 luglio del 1993 e riferii lo stato delle indagini».
 
Ovvero?
«Ovvero quel che fino allora avevo accertato. Inoltre rilevai che la Legge Anselmi aveva solo in parte colmato il vuoto legislativo dovuto al fatto che l'articolo 18 della Costituzione vietasse sic et simpliciter le associazioni segrete, per cui dovevano configurarsi due reati: l'associazione segreta di per sé e quella, più grave, prevista da detta legge per le attività illecite di interferenza nelle funzioni e nei servizi pubblici».
Un bel groviglio normativo…
«Restava il fatto che le associazioni segrete diverse da quelle classificate dalla Legge Anselmi fossero vietate, ma non costituissero reato: quindi, ad esempio, le logge coperte e mascherate come circoli culturali, pur essendo vietate dalla Costituzione, non lo sono dalla legislazione ordinaria, e si ignora, tuttora, come applicare tale divieto».
Altro che bolla di sapone…
«Lo ripeto ancora: avevo doverosamente, cioè obbligatoriamente, instaurato quel procedimento sulla base di concrete notizie di reato e non per mia mera invenzione ed avversione verso la massoneria, e potei occuparmene concretamente per meno di un anno, quando le indagini erano ancora quasi tutte nella fase ricognitiva. Quel che accadde dopo non avrebbe dovuto riguardarmi, pur nel generale silenzio subentrato sulla vicenda».
Le singolari illazioni contro il suo lavoro sono continuate per anni.
«Quelle di avere inconsistentemente instaurato un procedimento finito nel nulla sono completamente infondate e l'avere fatto il proprio dovere, come talvolta accade, è stato per me controproducente. Forse, in quell'inchiesta avrei dovuto comportarmi come nella raffigurazione delle classiche tre scimmiette, cioè non vedere, non sentire e non parlare?».
Invece usò bene tre dei cinque sensi...
«Proprio per la fondatezza delle mie indagini, nel marzo del 1993 il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia, Giuliano Di Bernardo, si dimise da tale Obbedienza fondando la Gran Loggia Regolare d'Italia: e anche su questo è calato l'assoluto silenzio».
Torniamo indietro, al 1963, a Reggio Calabria.
«Ero stato Pretore, Giudice a latere e poi Giudice Istruttore».
Addirittura, nel 1976, promosse l'istituzione presso la Polizia Scientifica del primo Archivio balistico comparativo.
«Fu il primo del genere in Italia e aveva lo scopo di repertare e catalogare, secondo gli elementi identificativi, tracce lasciate dal percussore o dall'estrattore, i bossoli rinvenuti in occasione di omicidi o di altri reati commessi con l'uso di armi da fuoco, nonché quelli esplosi probatoriamente, per tale catalogazione, dalle armi sequestrate in diverse occasioni».
Un bel salto in avanti.
«Lo scopo era di poter risalire, mediante la comparazione e con i supporti probatori del caso, agli autori di altri reati ove fosse identificato quello di uno di essi che avesse usato la stessa arma. Tale schedario precorse di ben 27 anni il "Sistema automatizzato per le comparazioni e le identificazioni balistiche", avviato dal Ministero dell'Interno in via sperimentale nel 2003 nei Reparti di Investigazione Scientifica (Ris, nda) dei Carabinieri di Parma, Roma, Cagliari e Messina».
Nel 1978 impresse una vera svolta investigativa
«Quale Giudice istruttore a Reggio Calabria, "promossi" l'allora non esistente reato di associazione mafiosa poi introdotto col successivo articolo 416 bis del codice penale. Cioè integrando l'associazione per delinquere comune di cui all'art. 416 con le caratteristiche mafiose».
Passaggio centrale del «metodo Cordova».
«Si trattava del procedimento penale n. 60/'78 nei confronti di Paolo De Stefano e cinquantanove affiliati, inquisiti per associazione per delinquere di cui all'art. 416 del codice penale, che io qualificai con le caratteristiche mafiose. Soltanto nel 1982, cioè dopo la tragica uccisione del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quella norma sarebbe stata introdotta nel nostro ordinamento».
Precorse i tempi, come sempre.
«Ero recidivo specifico».
 
Fu il primo maxi processo contro la 'ndrangheta calabrese?
«Aveva riunito tutti quelli riguardanti inquisiti cui veniva contestato di appartenere alla 'ndrangheta operante nel circondario, sotto il profilo del comune reato di associazione per delinquere di cui all'art 416 del codice penale, ma connotandolo con le tipiche modalità mafiose. Tale inquadramento fu poi mutuato dal legislatore nel formulare, quattro anni dopo, il reato associativo».
E si ritrovò un riconoscimento giudiziario di spessore.
«Nella lettera di commiato e di elogio del Procuratore Generale di Catanzaro, dott. Antonio Chiliberti, del 16 Novembre del 1978, si dava atto fra l'altro che "a tacere di ogni altra benemerenza del dottore Cordova - che pure può vantare per la serietà ed il senso di responsabilità con cui si dedica al proprio compito - basterà citare, a titolo di merito non comune, l'avere istruito e portato a termine il ponderoso processo a carico di 60 presunti mafiosi».
Soddisfazioni.
«Mi faccia terminare, che non è finita: "(…) che costituisce elaborato pregevole sia nella parte espositiva che in quella più propriamente motiva, nella quale viene puntualizzato, con ammirevole scrupolo, la configurazione esposta in linea tematica. La sua opera, schiva di clamore, animata da grande forza morale, è da considerare esemplare servizio reso alla causa della giustizia"».
Dirigendo la Procura di Palmi per tutti divenne «il mastino».
«Così venni definito, ma perché mordevo: non mi limitavo ad abbaiare».
Fioccavano gli elogi.
«Il 30 gennaio del 1989 un altro Procuratore Generale di Catanzaro dava atto che nella mia attività a Palmi avevo "dato un impulso veramente eccezionale all'Ufficio nella lotta alla criminalità organizzata"».
Nel 1992, alla vigilia delle elezioni politiche, scoprendo relazioni pericolose tra mafiosi, politici e imprenditori calabresi, lei s'imbattè nelle trame degli affari miliardari di Licio Gelli e di una miriade di personaggi legati ad associazioni occulte.
«Ne scaturirono 135 imputati di associazione mafiosa, traffico di armi e stupefacenti, voto di scambio, rapporti mafia-politica, sotto il profilo della mera violazione delle norme elettorali».
Un duro colpo alla 'ndrangheta imprenditrice.
«Disposi 180 perquisizioni nei confronti di altrettante persone indicate come affiliate o collegate alla 'ndrangheta (ovviamente, non a candidati): informai anche la Procura di Locri che si associò disponendone contestualmente altre 120».
Operò sequestri interessanti.
«Sì, di imponenti quantitativi di materiale elettorale riguardante numerosi candidati di svariati partiti politici dell'arco costituzionale ed extracostituzionale».
Altre indagini, altra norma del codice penale.
«Proprio per effetto di quelle indagini, e nonostante le immediate reazioni di rito, dopo pochi mesi, con il decreto legge 306/1992 convertito in legge 356/1992, venne introdotto l'art. 416 ter del codice penale, concernente lo scambio elettorale politico-mafioso, e venne integrato lo stesso art. 416 bis, nel senso che costituiva attività mafiosa anche il procacciamento di voti».
Tecnicismi non di poco conto.
«Il reato fu limitato alla promessa di voti contro erogazione di somme di denaro e non contro scambio di contributi, concessioni, appalti, come prevedeva l'originario disegno di legge: ebbene, fin da allora rilevai che era sufficiente riferirsi a qualsiasi "altra utilità", specificazione, quest'ultima, aggiunta solo nel 2014, cioè dopo ben 22 anni».
Dicono che abbia un brutto carattere.
«Non sono diplomatico».
In che senso?
«La diplomazia è, talvolta, una bellissima dama che suole avere intimi rapporti con il compromesso e generare brutti figli che si chiamano condizionamenti,"apparamenti", cioè aggiustamenti, come si dice nel gergo napoletano».
Ricatti, insomma.
«Faccia lei».
Si sente oggi «il mastino» di un tempo?
«Il mastino è tale per natura per cui non può mutarla col passare del tempo».
Cosa fa oggi Agostino Cordova?
«Il prossimo 5 maggio compirò 85 anni. Soffro di affezioni varie, non mi occupo più di quel che succede nell'attuale contesto e passo il mio tempo libero leggendo i classici della letteratura».
Eppure ancor oggi le inchieste di Agostino Cordova sono imprescindibili.
«Sarà, ma le loro conseguenze resistono al trascorrere del tempo e si sono trasformate in una pesante e ineliminabile cappa».
Ha servito lo Stato.
«Ho sempre fatto il mio dovere, in termini rigorosamente obiettivi e verificabili. Amen».  
Panormama.it   Milano, 31 gennaio 2021                            Egidio Lorito

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