Da 45 anni in Calabria, il sacerdote bresciano vive sotto scorta per essersi opposto alle prevaricazioni dei clan di Lamezia Terme. Fondatore della Comunità progetto Sud, ha portato la speranza ai disabili del Sud.

«Negli anni Settanta, a Brescia, anche quelli in carrozzina lavoravano», ricorda.

«Siamo stati catapultati, in così poco tempo, in un turbine di emozioni come mai era accaduto nella storia recente dell'umanità, tanto da essere stati costretti a rivedere tutte quelle certezze che come uomini e come psichiatri avevamo su argomenti quali l'intimità, la qualità dei sentimenti, il rapporto tra il cibo e l'amore, il ruolo della coppia, il desiderio, l'autostima, la gelosia, la bellezza, l'infedeltà, la seduzione». Il sessuologo Willy Pasini, 83 anni, spiega a Panorama.it le tracce lasciate sulle nostre vite da 13 mesi di pandemia. Come dire: l'intero universo uomo-donna filtrato attraverso le sapienti lenti della sessuologia e della psichiatria applicata, al fine di rileggere la pandemia e i suoi effetti collaterali sulla psiche. Già docente di psichiatria e di psicologia medica alla Facoltà di Medicina dell'Università di Ginevra e alla Statale di Milano, Pasini ha fondato la Federazione europea di sessuologia. Esperto all'Oms per i programmi di educazione sessuale e membro della Società di psicoanalisi, le sue ricerche spaziano dalla psichiatria sino alla ginecologia psicosomatica, dalla sessuologia clinica, allo studio delle malattie psicosomatiche. È autore di centinaia di pubblicazioni scientifiche e di molti best seller per Mondadori tradotti in 13 lingue.

«Ero un ragazzo del profondo Nord che si è trovato catapultato, da sacerdote, nel profondo Sud, per una missione evangelizzatrice. Quel ragazzo, anche ribelle ed anticonformista, è diventato uomo scegliendo di vivere in uno dei quartieri più problematici di Lamezia Terme, nella ancor più problematica terra di Calabria. Di cui si è innamorato».     
Don Giacomo Panizza ha lo sguardo magnetico, esattamente come quella sua voce che avvolge ed ipnotizza chi ha imparato ad ascoltarlo, ora discernendo del Vangelo come guida caritatevole, ora scherzando con i giovani disabili cui ha assicurato almeno un presente, ora irrigidendosi senza fare sconti a nessuno. Questo sacerdote originario di Pontoglio, dove il fiume di manzoniana memoria -l’Oglio, appunto- scorre libero lasciandosi alle spalle il superbo bacino dell’Iseo, impersona davvero il messaggio fondamentale della fede cristiana, in cui i valori terreni sembrano l’incarnazione dei dogmi evangelici. E neanche trentenne Don Giacomo, lasciando le valli bresciane, scelse di seguire gli ultimi tra gli ultimi. In Calabria.                   
Panorama.it lo ha incontrato in un momento di pausa di una delle tante frenetiche giornate, quasi una riformulazione calabrese dell’antica regola dell’ “Ora et labora” di benedettiana memoria.     

Fa effetto parlare con un calabrese dall’inconfondibile accento bresciano. 
«Il contrario lo notano i miei concittadini di Pontoglio, quando nello stretto bresciano inserisco qualche slang calabrese. Effetto del multiculturalismo tricolore».
Partiamo dall’inizio. 
«Oggi sono un sacerdote, ma gli inizi furono caratterizzati dalle vicissitudini che accomunavano noi giovani degli anni Sessanta: dopo aver interrotto gli studi ed essermi buttato nel lavoro in fabbrica, trovai la via del seminario ben oltre i venti anni di età».
Tappe scandite, come tutti i suoi coetanei.  
«Le scuole elementari e la fabbrica. Soltanto in seguito, scegliendo l’abito talare, ho avuto la fortuna di riprendere libri e quaderni, recuperando negli studi: adesso ho anche una laurea, “ad honorem”. Con il tempo ho recuperato anche la riflessione sull’uomo».  
In seminario dopo il Sessantotto. 

«Nel 1970, avevo 23 anni e le porte del seminario di Brescia mi spalancarono un mondo del tutto nuovo, io che provenivo dalla fabbrica».
Un passaggio dirompente.
«Imparai a studiare, perché dopo la quinta elementare, la scuola l’avevo praticamente abbandonata: leggevo, certo, ma fumetti e storie sui giornalini. A casa avevamo il celebre “Reader’s Digest” e i settimanali per la famiglia, ma ignoravo del tutto la cultura ufficiale».
La classica vocazione, insomma.   
«Non solo. Provenendo da una famiglia di operai -io stesso lo sono stato- avevo ben chiaro il senso di quella mia scelta, in un certo senso rivoluzionaria. La mia vocazione, evidentemente, non fu soltanto un atto di fede, ma l’esigenza umana di arginare le ingiustizie per proteggere i bisognosi».
Brescia era una roccaforte del pensiero cattolico militante.
«Respirai subito il messaggio della fede cristiana, ma anche altre culture -quella liberale, quella socialista- erano presenti a forgiare chi voleva farsi un’idea del mondo».  
La vita culturale in quegli anni era vivacissima. 
«Io provenivo dalla fabbrica, ero inizialmente più incline agli scontri per i diritti dei lavoratori. Figuriamoci a parlare di pensiero militante: avevo appena la quinta elementare».
Per non parlare della ricchezza industriale.
«Le fabbriche, quelle metalmeccaniche e quelle del tessile, erano lo sbocco naturale di noi giovanissimi figli del secondo dopoguerra. A Pontoglio, ad esempio, andava per la maggiore la filiera del velluto, che riforniva giganti dell’abbigliamento come la Coìn». 
Il richiamo era forte. 
«Certo, per attirare giovani operai dall’hinterland come dalle zone montane della Val Camonica o della Valtellina. Tutti lavoravano. Tutti lavoravamo».
Ma anche la filiera della cultura non era da meno.
«La Chiesa faceva proseliti anche grazie a prestigiose case editrici, come Morcelliana, Queriniana, La Scuola, Paideia. Ecco, fu quella contraddizione ad affascinarmi: da un lato le fabbriche, il capitalismo, il problema della tutela degli operai; dall’altro il pensiero cristiano. Operai ed intellettuali a braccetto».
Da subito un prete rivoluzionario.
«Beh, conosciamo tutti il primo rivoluzionario della storia. Io iniziai ad esserlo dall’ordinazione sacerdotale, nel 1976. Tante le domande che mi ponevo in quegli anni, e in quell’ambiente multiculturale trovai l’humus ideale anche per recuperare il mio tempo del sapere e dell’apprendimento scolastico».
Ma la sua rivoluzione iniziò 885 chilometri più a Sud… 
«In Calabria, a Lamezia Terme, dove scelsi di essere inviato senza tentennamenti».
Come ci capitò un sacerdote bresciano in quel di Lamezia? 
«Grazie al mio progetto spirituale, approvato dai superiori ecclesiastici: aiutare le persone affette da disabilità psico-fisica non relegandole indiscriminatamente nei tradizionali manicomi, ma aiutandole all’interno di strutture a dimensione familiare».
Un cambio di passo.
«Chi non veniva ristretto nei manicomi, finiva per rimanere rinchiuso a vita nelle proprie abitazioni: ed era lì che sarei andato ad aiutarli».
Costruì una diversa speranza accanto ai disabili.
«Offrii loro una diversa possibilità di aiuto, non basata sull’assistenzialismo dipendente, quanto su una guida innovativa».
La sua missione era a tempo.
«Sarei dovuto rimanere cinque anni, per le autorità ecclesiastiche: avrei dovuto aiutare chi era recluso nelle proprie abitazioni, senza possibilità alcuna di redenzione, vista l’assenza di ogni forma di servizi sociali».
E si trovò innanzi ad un mondo letteralmente sommerso.
«Quello dei disabili psico-fisici, letteralmente abbandonati alle proprie famiglie, a loro volta abbandonate dalle istituzioni. In Calabria non esistevano neanche le scuole speciali».
Toccò con mano il baratro.
«L’inferno, appunto. Ricordo ancora la povertà estrema, una disuguaglianza terrificante, le condizioni di assoluto abbandono in cui proprio le persone con disabilità erano costrette a vivere. Anzi a sopravvivere». 
Dicotomia Nord-Sud, ovviamente.
«A Brescia i disabili, anche quelli in carrozzina, lavoravano in fabbrica, tanto in reparto quanto negli uffici amministrativi; a Lamezia capii subito che i disabili rappresentassero la parte della società di cui vergognarsi. Per questo vivevano segregati in casa». 
Peccato e castigo.
«Era la litania che le madri dei disabili mi ripetevano continuamente: “cosa ho fatto di male per essere castigata cosi da Dio”. Era l’idea che il peccato generasse la disabilità».
Emerse forte la sua personale visione di missionario. 
«Iniziai a girare, casa per casa, a cercare di sensibilizzare familiari e disabili per costruirsi un’opportunità: uscire di casa e sentirsi liberi per la prima volta».
Provocatoriamente: Don Panizza teologo della “liberazione”.
«Praticamente. Parlavo loro della libertà di poter apprendere, di potersi inventare un lavoro, di poter conoscere altre persone fuori della cerchia familiare. E, soprattutto, di uscire dalle loro case». 
Risultato?
«Fu difficilissimo far comprendere il mio inedito messaggio, i ragazzi erano pur sempre giovanissimi: feci leva sulla mia giovane età».
E nacque “Progetto Sud”… 
«La Comunità di Capodarco, a Fermo, nelle Marche, nata nel 1966 con l’intento di affrontare la disabilità fisica, psichica, psichiatrica e sensoriale, era impegnata nella promozione di nuovi gruppi su tutto il territorio nazionale. La Comunità Progetto Sud nacque al suo interno nel 1976». 
Inizi difficilissimi: senza sostentamenti… 
«Ricevetti in prestito dalla Comunità marchigiana 54 milioni e mezzo di lire che avrei restituito nel tempo senza interessi. Quei soldi sarebbero serviti per ristrutturare l’immobile che l’amministrazione comunale di Lamezia mi avevo concesso in fitto».
…e con una squadra ridotta all’osso
«All’inizio eravamo in 20 tra disabili fisici e volontari, con l’obiettivo di dare risposte alternative alla istituzionalizzazione e “deportazione” dei disabili calabresi negli istituti del nord».
E la Chiesa locale? 
«Monsignor Ferdinando Palatucci mise a disposizione l’intero piano terra del Seminario. Era un vescovo illuminato: nipote di quel Giovanni Palatucci, morto nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, dichiarato dal popolo ebraico "Giusto tra le Nazioni" e Beato dalla chiesa cattolica, che salvò dallo sterminio decine di ebrei». 
Intanto la Comunità inizia a dare fastidio…
«Non l’opera di assistenzialismo, ovviamente, ma i nostri laboratori che, rendendoci autosufficienti, attirarono gli appetiti economici dei malavitosi locali. Immaginavano chissà quali fiumi di denaro gestissimo, noi che vivevamo del nostro lavoro. E così bussarono alla porta, a chiedere il pizzo». 
La ricorda quella prima “visita”?
«Nitidamente. Allora non sapevo cosa fosse la ‘ndrangheta, cosa fosse la violenza prevaricatrice, cosa fosse la richiesta estorsiva. Si presentarono due giovani a chieder “soldi per gli amici in carcere”: rimasi senza parole, perché non immaginavo il significato di quella richiesta». 
Da rimanere senza fiato.
«Dopo tanti anni mi sono quasi abituato al linguaggio criminale, ma allora non compresi bene il senso di quella richiesta. Avevo appena trent’anni e l’immagine di quei due emissari che con tono violento ed innanzi ai giovani disabili, pretendevano con la forza che gli consegnassi il frutto del nostro lavoro, mi sconvolse». 
E da quell’episodio?
«Ho perso il conto, in oltre quarant’anni abbiamo subito di tutto: un tempo gli avvertimenti erano saltuari, ora vengono prese di mira anche le auto dei volontari e di quanti lavorano con noi. Sono stato il primo testimone di giustizia a Lamezia».  
E cambiata la strategia.

«Le nuove leve della criminalità hanno bisogno di imporsi e conquistare spazi, anche con azioni eclatanti. Una delle nostre comunità ha sede proprio nel cuore del quartiere-fortino dei Torcasio, la temibile famiglia di ‘ndrangheta locale». 
Una delle vostre sedi è un simbolo di riscatto. 
«L’immobile di via dei Bizantini sede del gruppo “Pensieri e parole” è stato confiscato a quella famiglia nel 1999 e nel 2002 a noi assegnato per fini sociali: una sconfitta per il clan».
Intanto la comunità è cresciuta. 
«Abbiamo affrontato problematiche riguardanti minori, tossicodipendenza e disagio giovanile, dando vita ad un insieme di gruppi diversificati. Ci siamo dotati di realtà riabilitative e lavorative, centri di documentazione e servizi di formazione, informazione e orientamento».
Come l’area urbana. 
«La Citta di Lamezia Terme venne istituita il 4 gennaio 1968 a seguito dell'unione amministrativa dei precedenti comuni di Nicastro, Sambiase e Sant'Eufemia Lamezia, E’ strategica dal punto di vista agricolo, commerciale, industriale e infrastrutturale grazie alla sua posizione baricentrica nella regione. L’aeroporto venne aperto al traffico proprio nell’anno del mio arrivo».   
E “Progetto Sud” è una realtà all’avanguardia. 
«Cerchiamo di individuare risposte concrete di inclusione sociale per tutti coloro che si trovano in uno stato di emarginazione. La comunità è un “gruppo di gruppi” che gestisce servizi e iniziative sociali, reti di solidarietà e sistemi di accoglienza». 
Colpisce il simbolo della Comunità.
«Il logo del gruppo è un fiorellino azzurro con contorno bianco e con cinque petali, l’uno diverso dall’altro, a rappresentare la pluralità delle identità appartenenti al gruppo Progetto Sud».
E a Don Giacomo è stata conferita anche una laurea “honoris causa”.
«Quella magistrale in “Scienze delle politiche e dei servizi sociali” all’Università della Calabria! Nel tempo avevo riportato per iscritto gli aspetti umani e sociali registrati durante tanti anni di impegno in favore degli ultimi. La mia missione pedagogica non è passata inosservata».
Certezze
«Bisogna che tanti facciano poco, più che pochi facciano molto. Contro le mafie non serve Rambo. Serve che tutti ci impegniamo per la libertà di tutti, e la legalità è “cosa nostra”, un tassello di questo impegno».
Paure.
«Dopo quarantacinque anni sono ancora in Calabria, nella mia Lamezia».

Panorama.it            Egidio Lorito, 24/04/2021





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