La galleria delle icone del pensiero liberale italiano è più ricca che mai: da Benedetto Croce a Luigi Einaudi, da Gaetano Salvemini a Guido Calogero, da Carlo Antoni a Giuseppe Maranini, da Norberto Bobbio a Nicola Matteucci, da Giovanni Sartori a Rosario Romeo, sino a Francesco Compagna ed alla rivista “Nord e Sud”, modello di dialogo culturale tra i due estremi, non solo geografici, del nostro Paese. Senza dimenticare quel Lucio Colletti, la cui parabola, dal marxismo a Berlusconi, bussa alle porte dei nostri giorni.
Giuseppe Bedeschi ha estrapolato da queste icone liberali i temi dell’analisi politico-filosofica, ispirandosi ora a quelli più spiccatamente ideali, ora a quelli più marcatamente pratici, assecondando l’ispirazione e la timbrica di ciascuno di loro. Il suo ultimo saggio, I maestri del liberalismo nell’Italia repubblicana (Rubbettino, 2021), mette «in rilievo come tutti, in un’Italia in cui il marxismo e il cattolicesimo politico avevano l’egemonia, abbiano condotto una decisa battaglia in difesa della società pluralistica, ora economica, ora politica, ora culturale: ed abbiano combattuto le grandi disuguaglianze sociali, rivendicando una società più giusta». Appena pubblicato e già oggetto di approfondite analisi, «il libro mostra che, per ricchezza di cultura e per capacità di riflessioni teoriche, il pensiero liberale dell’Italia repubblicana occupa un posto di tutto rispetto nella cultura europea contemporanea».
Professore emerito di Storia della filosofia presso “La Sapienza” Università di Roma, dopo aver insegnato anche a Cagliari e all’Orientale di Napoli, Giuseppe Bedeschi può essere considerato il principale storico del pensiero liberale nel nostro Paese: partendo dal rapporto Marx-Hegel e dall’analisi della celebre Scuola di Francoforte, è approdato ai grandi temi etico-politici del liberalismo e del pensiero politico del ventesimo secolo, già cristallizzati in quella Storia del pensiero liberale (Laterza, 1990), fondamentale sintesi per ogni analisi sul tema. Membro del comitato scientifico della rivista “Nuova storia contemporanea”, a Panorama.it Bedeschi ha confidato come «la ferma difesa della società pluralistica, unita alla preoccupazione di rendere la nostra società sempre più giusta, combattendo le grandi disuguaglianze, e fornendo un minimo di benessere a tutti e garantendo a tutti i giovani eguali punti di partenza, sia la strada maestra da sempre indicata dal pensiero liberaldemocratico».
Professore, cos’è il liberalismo?
«E’ quella dottrina, quella corrente del pensiero europeo, che sottolinea, ponendoli in primo piano, i diritti degli individui rispetto all’autorità costituita, ovvero allo Stato. Si tratta, ancor meglio, di due grandi categorie di diritti che lo stesso Stato deve garantire: quelli che riguardano le libertà dallo Stato nella sfera spirituale e quelli relativi alla libertà dallo Stato nella sfera economica».
Nello specifico?
«Bastano due esempi: nella sfera spirituale rientrano la libertà di pensiero e quella di religione; nella sfera economica, il diritto di proprietà, di iniziativa economica, di commercio».
Paradosso: Locke, Montesquieu e Kant, icone assolute del liberalismo, non hanno mai conosciuto né quel sostantivo né l’aggettivo liberale…
«Ironia della sorte. Perché la definizione di liberale entra nel linguaggio politico europeo solo verso la metà dell’ottocento. Si tratta di un dettaglio puramente storico, che non è affatto un ostacolo per definire liberali pensatori di tale portata. Lo studio del pensiero deve attagliarsi sempre a questioni di sostanza».
Lo citano tutti quelli che guardano all’America: Toqueville.
«Grandissima la statura di questo funzionario francese, di origini aristocratiche, capace di illustrare al mondo intero il dogma centrale della democrazia americana, quel principio interstiziale inteso come “eguaglianza delle condizioni”».
Svelò anche i lati oscuri della democrazia americana.
«Per mettere in guardia dai suoi stessi pericoli, come la “dittatura della maggioranza”: un singolo individuo, quando un’opinione prevale largamente, è costretto a vedere ridotto lo spazio per esprimere pensieri diversi da quelli della maggioranza al potere».
Popper preconizzò la “società aperta”…
«Le nostre società occidentali sono “aperte, nel senso che in esse ciascuno di noi può esprimere il proprio pensiero e può unirsi politicamente in gruppi. Direi che l’ingegneria socio-politica di Sir Karl ha trovato piena cittadinanza alle nostre latitudini, soprattutto in tema di dissenso».
Von Hayek quella “libera”.
«E’ essenzialmente un modello teorico, anche se di grandissimo interesse. Affinché la società rimanga tale, occorre che il mercato non subisca limitazioni di nessun genere, proprio dallo Stato. Insomma, la libertà del mercato è il fondamento della società liberale. Aggiungo che in alcune occasioni lo Stato stesso sia chiamato ad intervenire proprio per garantire il funzionamento del mercato medesimo».
Bedeschi non fa mistero nel rimarcare come In Italia il pensiero liberale raramente abbia goduto di posizioni di vertice, quasi sempre classificandosi alle spalle, all’indomani della caduta del fascismo, di profili dominanti come il pensiero cattolico -arroccato sostanzialmente su un profilo comunitario-solidaristico- e quello marxista, che per lo storico della filosofia originario di Alfonsine, nel ravennate, è apparso avvitato tutt’attorno al partito comunista, di stampo statalistico-collettivistico.
Ecco perché, mai come oggi, appare irrinunciabile guardare al pantheon del liberalismo made in Italy.
Benedetto Croce definì il fascismo un “morbo ideologico”.
«La diagnosi crociana ha conosciuto più fasi: accolse il fascismo con favore all’inizio, con il voto di fiducia al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti, ma quando poi vennero soppresse le libertà statutarie, la sua opposizione divenne intransigente, di natura ideologico-culturale, con la sua rivista “La critica”. Giunse alla conclusione che il fascismo non fosse solo un fenomeno italiano, ma, come ideologia, avrebbe potuto infettare anche altre realtà. Come accadde».
Luigi Einaudi era tentato dallo scrivere un “inno alla disunione degli spiriti”.
«Rimane l’aspetto più affascinate della sua analisi: in una società libera si confrontano opinioni diverse, con il dissenso posto sullo stesso piano del consenso. Anzi, sotto certi aspetti, proprio il dissenso sarebbe il fondamento dell’etica politico-liberale».
Gaetano Salvemini si batté per una “terza forza”.
«Lo storico pugliese dopo aver abbandonato ogni suggestione marxista -“il marxismo è una droga meravigliosa”, disse- scelse il terreno delle riforme per le quali avrebbe dovuto battersi una “terza forza”, situata tra democristiani e comunisti. E riconobbe come proprio l’Italia “liberale” fosse progredita, dal 1861, più di ogni altra nazione europea. Evidenziò l’inesistenza di una “democrazia perfetta”, anche in Inghilterra».
Guido Calogero perlustrò il “liberalsocialismo”.
«Forma particolare, comunque differente dal socialismo liberale di Carlo Rosselli: Calogero non fece nessuna concessione al marxismo, considerando la proprietà privata il naturale fondamento di una società libera: per lui miti marxisti della soppressione della proprietà e della nazionalizzazione delle imprese, sarebbero rimasti pur sempre nocivi, forieri di una società totalitaria».
Carlo Antoni s’era messo in testa di recuperare il giusnaturalismo.
«Pensatore di formazione crociana, sentì il bisogno di dare al liberalismo un fondamento ancora più forte rispetto al suo maestro, per il quale -ricordiamolo- il soggetto della Storia è lo spirito universale e l’individuo solo un momento. Per Antoni, il liberalismo non avrebbe potuto trovare altro fondamento se non l’individuo e i suoi diritti. Ovvero, il recupero del filone giusnaturalistico».
Per Giuseppe Maranini, già nel 1946, il cancro che minava la nostra democrazia era la “partitocrazia”.
«Svolse un’analisi politica sui grandi quotidiani dell’epoca, quasi prevedendo alcuni malanni della nostra democrazia: pensiamo che si batté affinché i partiti rendessero note le fonti dei loro finanziamenti, cioè pubblicassero i loro bilanci. E poi i partiti non dovevano diventare fortezze chiuse ed inespugnabili, ma basarsi sugli statuti e sulla forza della partecipazione popolare. Credo abbia anticipato, idealmente, la fine della Prima repubblica».
Norberto Bobbio affascina ancor oggi per quell’analisi tra “politica e cultura”.
«Attraversò due fasi: prima subì il fascino dell’Urss e dalla Rivoluzione d’ottobre, affermando che i Paesi orientali avessero realizzato profonde riforme sociali, poi dopo gli eventi del 1956 -il rapporto segreto di Kruscev che denunciava il regime staliniano come uno dei peggiori della storia e la rivoluzione ungherese- Bobbio maturò un profondo ripensamento, avvicinandosi alle sorgenti del liberalismo, rileggendo Locke e Kant».
Nicola Matteucci collocò il liberalismo in un mondo in trasformazione.
«Percepì il liberalismo, oltre il modello crociano, come elaborazione di analisi empiriche e di istituti che garantissero le libertà dei cittadini, auspicando l’apertura alle scienze sociali. Avvertì il pericolo del populismo, del “sessantottismo” che, in lui, trovò un critico fermo e fiero».
Giovanni Sartori non smise mai di chiedersi cosa fosse la “democrazia liberale”.
«Tra le molte le fasi attraversate dal suo pensiero, fondamentale rimane l’aver mostrato che a differenza di quanto avveniva nella “democrazia degli antichi” -basti ricordare la figura di Pericle- quella moderna si fondava sulla “libertà del dissenso”, la possibilità, cioè, che si confrontassero continuamente opinioni e linee di pensiero perfettamente antitetiche, a caccia della maggioranza dei consensi dei cittadini».
Rosario Romeo, nel 1953, esaminò il “tipo liberale”.
«Nutrì la cultura liberale con indagini economico-sociali e demolì la tesi gramsciana sul Risorgimento come rivoluzione agraria mancata. Avvertì, quindi, in modo acuto l’esigenza di un rinnovamento profondo della cultura liberale nella direzione di un sapere sempre più positivo e più attrezzato nell’analisi sociale e negli approcci economici».
Francesco Compagna tentò con “Nord e Sud” di imporre un liberalismo meridionale.
«Il suo riferimento insostituibile, Giovanni Amendola, aveva ben chiaro che per affrontare la “questione meridionale” non potesse mancare l’impegno degli uomini del Sud, ma anche dello Stato, chiamato ma svolgere un ruolo di coordinamento: cosa avvenuta, dal 1950, con la nascita della Cassa per il Mezzogiorno e la riforma agraria».
Lucio Colletti è passato da Marx a Berlusconi: un azzardo ideologico?
«Apparentemente. Colletti è stato il mio maestro ed ha attraversato un lungo travaglio intellettuale, prendendo atto di come tutte le previsioni di Marx, a partire dalla rivoluzione socialista occidentale, fossero state smentite dalla storia. Una serrata critica epistemologica del marxismo lo fece approdare al pensiero liberale: ancor oggi la sua “Intervista politico-filosofica” del 1974 rimane un classico per lucidità analitica».
Panorama.it Egidio Lorito, 17/05/2021