Dopo la clamorosa evasione dal carcere di Montevideo del giugno del 2019 il boss della ‘ndrangheta, secondo della lista dei latitanti più pericolosi e ricercarti d’Italia, è stato catturato in Brasile, in un hotel di lusso. La storia di un potentissimo nato davvero dal basso. I ricordi di Claudio Cordova ed Enzo Ciconte  

Claudio Cordova: «E’ accusato di aver fatto parte, tra il 1988 e il 1994, di un gruppo del narcotraffico nel quale organizzava il trasporto della droga in Italia».
Enzo Ciconte: «Le nuove leve della ‘ndrangheta, pur cambiando identità, continuano ad esporsi platealmente come se nulla fosse».
Da quando si era reso protagonista di una spettacolare fuga dal penitenziario “Central” di Montevideo, in Uruguay, il 24 giugno del 2019, Rocco Morabito, boss della ‘ndrangheta e re indiscusso della “coca milanese”, era diventato una specie di ossessione per le autorità di mezzo mondo. 

Quella fuga, rocambolesca come la sua vita, assieme a tre compagni, fuggendo nientemeno che da una delle terrazze dell’istituto penitenziario ubicato nel bel mezzo della popolosa capitale, era apparsa uno smacco per almeno due Paesi: per le autorità uruguagie -la notizia era stata diffusa dal quotidiano “El Observador” a conferma della nota diffusa dal Ministero dell’Interno- che appena tre mesi prima avevano prestato l’assenso per l’estradizione in Italia, dopo aver posto fine nel settembre del 2017 alla lunga latitanza iniziata nel 1994, quando Morabito venne scovato in un albergo di Montevideo ove viveva con il nome di Francisco Cappelletto, un imprenditore brasiliano di 49 anni; e per quelle italiane, ovviamente, che avevano dovuto assistere -impotenti- alla nuova performance del giovane rampollo di una delle famiglie più note del panorama mondiale della criminalità targata ‘ndrangheta. Insomma: più veloce dell’estradizione in Italia, Rocco “Tamunga” Morabito aveva fatto perdere ancora le sue tracce, fuggendo -si disse- alla volta del Brasile e lasciando alle sue spalle polemiche internazionali e ben quindici poliziotti uruguagi nei guai, accusati di averlo, in qualche modo aiutato a spiccare il volo, novello “Batman” tra i palazzoni di Montevideo. Ora le autorità italiane si sono prese una bella rivincita, giocando ancora in trasferta, questa volta in Brasile, dove già all’epoca della fuga si sospettava si fosse nascosto: a Rocco Morabito le manette sono scattate ai polsi all’interno di un albergo di Joao Pessoa, capitale dello stato di Paraìba, città di settecentomila abitanti, con 40 chilometri di coste dalla sabbia bianca finissima, richiamo di turismo internazionale, anche per essere la città più orientale del Brasile e di tutto il continente latino-americano. Per il ministro della Giustizia Anderson Torres, «l’arresto compiuto dalla polizia federale dimostra, ancora una volta, il nostro impegno nella lotta alla criminalità. Congratulazioni per la brillante operazione di polizia e di intelligence». Raggiante, ovviamente, Giovanni Bombardieri, procuratore capo della Dda di Reggio Calabria che, raggiunto dall’AdnKronos, ha evidenziato soddisfazione per «questa attività, iniziata il giorno dopo la sua fuga, in stretta collaborazione con l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria uruguaiana, in stretto collegamento con la Dda di Reggio Calabria, i carabinieri del Ros del comando provinciale di Reggio Calabria e di Locri, successivamente con il supporto della Dea, dell’Fbi, della polizia brasiliana e Interpol». In effetti, per come rimarcato proprio da Bombardieri, quella fuga rocambolesca «poco prima dell’estradizione in Italia era una sconfitta. Ora sono state messe in campo tutte le collaborazioni a livello internazionale di cooperazione di polizia giudiziaria che ci hanno consentito questo risultato importantissimo. Tutti gli sforzi sono stati finalizzati alla cattura di quello che era uno dei latitanti più pericolosi, il numero 2 dell’elenco del ministero dell’Interno».

La biografia criminale
Nel caso di Rocco Morabito, pur lasciandosi trascinare da una narrazione di stampo calcistico, le classifiche contano veramente per capire il suo spessore criminale: certo, la circostanza che nello speciale elenco dei latitanti più ricercati, Morabito -sino al 23 maggio- si trovasse proprio alle spalle di Matteo Messina Denaro, la dice lunga sulla sua pericolosità. Originario di Africo, in provincia di Reggio Calabria -feudo della cosca del pericolosissimo Peppe ‘u Tiradrittu, con il quale è imparentato pur facendo parte di un altro ramo dei Morabito- ove nacque il 13 ottobre del 1966, la vita di Rocco Morabito si è posta letteralmente agli antipodi di quell’immagine di persistente precarietà economica e sociale che da almeno cinquant’anni caratterizza uno dei borghi grecanici più affascinanti della costa jonica reggina: qui, per intenderci un intellettuale liberale piemontese del calibro di Umberto Zanotti Bianco, nominato senatore a vita da Luigi Einaudi nel 1952, compì una celebre inchiesta sulle condizioni della Calabria, dopo essere addirittura corso in aiuto, ventenne, della popolazione di Reggio Calabria devastata dal terremoto del dicembre del 1908. Calabria abbandonata, si disse, che trovò aiuto concreto, invece, in masse di soggetti poco raccomandabili che lentamente, ignorati dallo Stato centrale, stavano impossessandosi di un territorio concentricamente in crescita. E così, quando Morabito non era che un ragazzino, a partire dagli anni Settanta, non fu difficile registrare l’ascesa della 'ndrangheta locale con modalità pervasive violente, al punto da condurre, negli anni Ottanta, il piccolo abitato al centro di una sanguinosa faida, con la locale amministrazione comunale sciolta più volte d’autorità e sostituita da commissari straordinari, le ultime volte nel 2014 e nel 2019, esattamente quando il suo concittadino meno presentabile si tirava addosso le polizie dei “due mondi”. Quando venne catturato in Uruguay nel 2017, era ricercato dal 1994 per associazione di tipo mafioso, associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti ed altri gravi reati ed in Italia doveva espiare una pena di 30 anni di reclusione. Aveva appena 22 anni, nel 1988, che studente universitario in riva allo Stretto, sponda messinese, venne arrestato dalla Procura di Messina, insieme a due compagni di studio e di appartamento, Bruno Criaco e Annunziato Zavettieri, per aver rivolto pressanti minacce ad un docente dell’Ateneo di Messina, dove, per come riportano diverse informative di reato, le famiglie della ‘ndrangheta “bene” riuscivano a far iscrivere e laureare i propri rampolli. L’anno dopo, in quel bagno di sangue della faida africota, venne assassinato suo fratello Leo e qualche tempo dopo la Polizia lo rintraccia a Sessa Aurunca, storico borgo del casertano, a discutere di affari -di cocaina, ovviamente- con il camorrista narcotrafficante internazionale Alberto Beneduce, detto 'a cocaina, classe 1950, ucciso il 1 agosto del 1990 in un agguato ordito ai suoi datti dal potente clan avversario di Mondragone. Come in molte storie criminali della ‘ndrangheta contemporanea, Milano lo accoglie nel 1991: a 25 anni mostra la sua sfrontatezza tra i giovani di belle (poche) speranze che buttavano tempo e denari nei locali alla moda in quegli anni di passaggio, come il Biffi di Piazzale Baracca, in quelli della Galleria, in quelli di piazza Diaz per spostarsi sin dentro l’Ortomercato, vero suk cittadino della cocaina “made in family”. Morabito va a vivere al numero 18 di Via Bordighera, zona Tibaldi, dove risultava residente fino a non poco tempo addietro, anche se le cronache giudiziarie lo collocavano in pianta stabile a Casarile, a metà strada sulla via di Pavia: la sua villetta di via Carlo Alberto Dalla Chiesa 37, oggi è confiscata ed è diventata la sede della biblioteca comunale. Forza del karma, si dirà. Destino simile per la sua casa di Africo: dalle foto si tratterebbe di una villa di tre piani circondata da giardino, in realtà una sorta di Fort Knox alla cui sommità, raccontano sempre le cronache, farebbe bella mostra di sé un sontuoso idromassaggio orientato verso l’azzurro del mare Jonio. Milano, dove potrà contare sull’appoggio dello zio Domenico Mollica, rappresenta il trampolino di lancio verso il narcotraffico internazionale, al punto che, neanche trentenne, gli investigatori lo immortaleranno nel 1994 in un summit con narcotrafficanti colombiani di Escobar, dei cartelli di Medellin e Cali. E sarà proprio quello il suo annus horribilis: saranno trenta gli anni di carcere inflittigli all’esito dell’operazione Fortaleza, per associazione di tipo mafioso e traffico di droga, circostanza che gli varrà l’inserimento, il 10 febbraio 1995, nella lista dei latitanti più pericolosi. Quella lunga latitanza in Uruguay, la spola tra Montevideo e Punta del Este, la vita da ricco commerciante con passaporto brasiliano sotto il nome falso, ovviamente, di Francisco Antonio Capeletto Souza, fanno curriculum, soprattutto nella narrazione criminale di chi riusciva ancora a farla franca.

La cattura nel 2017

L’avevano arrestato, Rocco Morabito, il 4 settembre del 2017 in un hotel di Montevideo dopo 23 anni di latitanza: quella falsa identità aveva retto sin troppo e quell’hotel era stato il suo ultimo buen retiro condiviso con la compagna Paula Maria De Olivera Correia, 54enne angolana, titolare di passaporto portoghese. In realtà da 13 anni era l’esclusiva Punta Del Este ad aver protetto le sue scorribande criminali, sotto quell’identità brasiliana che, a mò di testa di ponte, gli aveva fatto guadagnare anche una carta d’identità uruguayana. Inseguito, era in fuga -si pensava in Brasile- ma le indagini si erano concentrate proprio in Uruguay dopo un particolare che non era certo sfuggito ai segugi italiani: aveva iscritto una figlia a scuola sotto il suo vero nome.
La rocambolesca fuga nel 2019
Rocco Morabito, dunque, era riuscito ad evadere il 24 giugno 2019 insieme ad altri tre detenuti -Leonardo Abel Sinopoli Azcoaga, Matias Sebastián Acosta González e Bruno Ezequiel Díaz- dalla terrazza del carcere “Central”: «“El rey de la cocaina en Milàn”. Così il giornale “El Observador” definisce Rocco Morabito nel lanciare la clamorosa notizia: il boss della 'ndrangheta sarebbe evaso dal carcere "Central" di Montevideo in Uruguay. Un appellativo molto calzante, dato che dalla Locride, Morabito sarebbe entrato prepotentemente nei salotti milanesi, prima di trascorrere gran parte della sua vita in America Latina». Così ricorda l’episodio a Panorama.it Claudio Cordova, cronista reggino direttore de “Il Dispaccio.it” ed autore nel 2019 di “Gotha. Il legame indicibile tra ‘ndrangheta, massoneria e servizi deviati”. «“U Tamunga”, come era soprannominato dalla storpiatura del nome dell’indistruttibile fuoristrada tedesco Dkw Munga, a 25 anni aveva lasciato l’Aspromonte per Milano dove era entrato nel giro dei giovani rampanti del centro per curare lo spaccio di cocaina. Morabito è accusato di aver fatto parte, tra il 1988 e il 1994, di un gruppo del narcotraffico nel quale organizzava il trasporto della droga in Italia e la distribuzione a Milano. Dunque, era in attesa di essere rimpatriato in Italia, dove lo attende una condanna a 30 anni di reclusione per associazione mafiosa e traffico di droga, arrivata dopo che agenti sotto copertura lo avevano sorpreso a pagare 13 miliardi di lire per un carico di droga di quasi una tonnellata», sottolinea ancora il cronista di Reggio Calabria.

Cosa significa la sua cattura
«Il primo aspetto da evidenziare nell’arresto di Rocco Morabito è la sinergica collaborazione tra le autorità italiane e quelle straniere, in questo caso uruguagie e brasiliane. Ciò conferma la circostanza che solo con un costante dialogo tra le varie forze di polizia sul fronte del narcotraffico e della criminalità di sostegno, sarà possibile arginare il flusso mondiale della cocaina e della stessa mafia», ha dichiarato a Panorama.it Enzo Ciconte, docente di Storia delle mafie italiane all’Università di Pavia e già consulente della Commissione parlamentare antimafia dal 1997 al 2010. Fine conoscitore del fenomeno criminale calabrese -è stato il primo a pubblicare, nel 1992, un testo storico in materia, ‘Ndrangheta dall’Unità ad oggi- Ciconte sottolinea inoltre come «la seconda chiave di volta nell’arresto di Morabito stia in un aspetto non secondario nella vita del fenomeno criminale calabrese: se, infatti Morabito aveva cambiato identità personale per meglio nascondersi agli occhi di chi lo braccava da anni, -era diventato Francisco Antonio Capeletto Souza- non aveva però cambiato la sua attività principale, ovvero quella di trafficante di cocaina a livello planetario. La vicenda di Morabito, insomma, mostra un cambio di mentalità: una volta, i vecchi ‘ndranghetisti latitanti tendevano ad occultarsi, a non mettersi in mostra, a nascondersi il più possibile; oggi le nuove leve -e Morabito le impersona tutte- pur cambiando identità, continuano ad esporsi come se nulla fosse, continuando a svolgere rischiosissime attività economiche come se nulla continuasse ad accadere intorno a loro. Insomma, sprezzanti delle stesse forze dell’ordine. C’è da riflettere».
Panorama.it Egidio Lorito, 25/05/2021



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