La Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità costituzionale della pena detentiva per i giornalisti, come invece prevedeva l’articolo 13 della legge sulla stampa. 

Per l’articolo 595 del codice penale, il carcere resta soltanto nei casi più gravi di diffamazione con istigazione alla violenza o nelle forme di espressione che diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza.
Per il presidente del sindacato dei cronisti romani Pierluigi Roesler Franz «la Corte ha preso finalmente atto della giurisprudenza europea, dando ingresso al celebre articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, sulla libertà di espressione».
Per l’avvocato milanese Caterina Malavenda «la Corte ha surrogato il Parlamento, inattivo in materia, per abrogare solo una delle norme che prevedono il carcere per i giornalisti, lasciando però la possibilità di irrogarlo, sia pure in alternativa alla multa, quindi senza eliminarlo del tutto, come pure avrebbe potuto fare».

Alla fine il Giudice delle leggi ha tuonato ed il fragore è di quelli che verranno salutati con grande gioia da parte degli operatori dell’informazione. Dopo che il 9 giugno dello scorso anno, con l’ordinanza 132 che sollecitava il Parlamento ad una riforma della materia della diffamazione, la Corte Costituzionale aveva rinviato al 22 giugno di quest’anno la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dai Tribunali di Salerno e Bari, proprio ieri la Corte ha fatto sentire tutto il suo peso di Giudice della legittimità delle leggi. Questi dodici mesi sarebbero dovuti servire al fine di «consentire alla Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia» ma, dopo che neanche questa volta e nonostante i progetti di riforma e le tante enunciazioni di principio, il Parlamento era riuscito a legiferare nell’importante settore, continuando quindi a procrastinare il pressante invito, proprio ieri è giunta la tanto sospirata sentenza.
Un anno di sospensione.
La Consulta ha trattato le questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispettivamente, dal Tribunale di Salerno con l’ordinanza del 9 aprile del 2019 e dal Tribunale di Bari del 16 aprile dello stesso anno sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista per la diffamazione a mezzo stampa, per contrasto, tra l’altro, sia con l’articolo 21 della Costituzione che con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma cosa aveva spinto le due corti a sospendere i rispettivi dibattimenti in corso e ad adire la Corte costituzionale? Motivazioni sostanzialmente sovrapponibili, con qualche sfumatura: il Tribunale di Salerno, innanzi al quale era pendente un procedimento per diffamazione ai danni di un giornalista e del direttore responsabile della testata per omesso controllo ai sensi dell’artt. 57 del codice penale, aveva ritenuto accoglibili le richieste delle difese che avevano evidenziato come l’art. 13 della legge sulla stampa italiana risultasse in evidente contrasto, in riferimento alla pena detentiva prevista, proprio con la disciplina europea invocata, ovvero con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che la pena detentiva non prevede. Inoltre era stata sollevata questione di legittimità costituzionale anche nei confronti dello stesso art. 595 del codice penale, circa l’alternatività tra pena pecuniaria e detentiva prevista. Dall’altro versante, invece, il Tribunale di Bari aveva sollevato questione di legittimità costituzionale esclusivamente in riferimento all’art. 13 della legge sulla stampa che prevede la pena detentiva congiunta -e quindi non alternativa- a quella pecuniaria: norma, questa, che non affida al giudice nessuna discrezionalità per distinguere i casi eccezionali di grave violazione dei diritti fondamentali da altre ipotesi. Insomma, i due Tribunali avevano sollevato la questione di costituzionalità del sistema sanzionatorio così articolato, nella parte in cui si prevede la pena detentiva a carico del giornalista responsabile del reato di diffamazione a mezzo stampa, censurando le norme sottoposte al vaglio di legittimità perché -si sospettava- violassero un corposo nucleo di fondamentali articoli della nostra Carta costituzionale: dall’art. 3 sull’uguaglianza formale e sostanziale all’art. 21 sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero; dall’art. 25 sul giudice naturale precostituito per legge e sul principio di irretroattività all’art. 27 sulla personalità della responsabilità penale, presunzione di non colpevolezza, rieducazione delle pene. Senza dimenticare la nuova formulazione dell’art. 117, c.1 della Costituzione in riferimento ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, in questo caso in relazione all’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce la libertà di espressione.
La scelta della Corte costituzionale.
La tecnica interpretativo-legislativa utilizzata del Giudice delle leggi è stata quella dell’ordinanza di incostituzionalità c.d. accertata ma non dichiarata, che già aveva avuto applicazione nel caso di Marco Cappato, che si ricorderà venne imputato, nel 2017, per aver rafforzato il proposito suicidario di Fabiano Antoniani, meglio conosciuto con il nome di Dj Fabo, affetto da tetraplegia e cecità a seguito di un incidente stradale nel 2014: Cappato, esponente dei Radicali e dell’associazione “Luca Coscioni”, aveva prospettato allo sfortunato Fabo la possibilità di ottenere assistenza al suicidio presso la sede dell’associazione Dignitas, a Plaffikon, in Svizzera. Nel caso della riforma della diffamazione, la Corte costituzionale aveva assegnato, nel giugno del 2020, al legislatore ordinario, cioè al Parlamento, giusto un anno di tempo per riformare l’annosa questione e delle sue conseguenze detentive. La Corte, dopo aver preso atto della pendenza in Parlamento di numerosi progetti di legge per definire i confini della materia, si era sostanzialmente riportata al principio che vuole la collaborazione tra le istituzioni costituzionali ed aveva così disposto la sospensione dei procedimenti penali da cui erano state sollevate le questioni di legittimità costituzionale, cioè i Tribunali di Salerno e Bari. Esattamente un anno fa, i commentatori non avevano potuto non constatare «il chiaro monito della Corte al legislatore, il quale è stato correttamente ritenuto l’organo a cui spetta la rimodulazione del bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la reputazione della persona, alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea» come avevano evidenziato gli avvocati Margherita Pisapia e Carlotta Cherchi dello Studio legale milanese Pisapia e associati.
La sentenza.
Intanto si dovrà attendere per il deposito della sentenza, ma il punto di diritto è stato finalmente marcato a chiare lettere: la Consulta, dopo aver preso atto del rinvio sine die da parte della nostro parlamento, è giunta a dichiarare l’incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa -la n. 47 dell’ 8 febbraio del 1948- che in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, prevedeva la reclusione da uno a sei anni insieme al pagamento di una multa. La Corte, invece, ha ritenuto compatibile con il dettato costituzionale dell’art. 21 l’altra norma che regola la disciplina in materia di manifestazione del pensiero ed attività giornalistica, ovvero il terzo comma dell’articolo 595 del Codice penale, che -ricordiamolo- prevede, per ipotesi ordinarie di diffamazione a mezzo stampa o tramite altra forma di pubblicità, il regime sanzionatorio della reclusione da sei mesi a tre anni o, alternativamente, il pagamento di una multa. In pratica, proprio la norma del codice penale affida al giudice la possibilità di applicare la pena detentiva unicamente nelle vicende di eccezionale gravità. Nonostante l’intervento della Corte costituzionale, rimane improcrastinabile un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento -la Corte non ha, infatti, gli strumenti per compierlo- tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione.
Le reazioni degli addetti ai lavori
«Finalmente una bella notizia per i giornalisti che, una volta tanto, possono accogliere con soddisfazione un cambio di rotta nella normativa italiana». Il presidente del sindacato dei cronisti romani Pierluigi Roesler Franz, storica firma di nera e giudiziaria, commenta la sentenza con la quale Corte costituzionale ha, praticamente, abolito il carcere per gli operatori dell’informazione.
C’è da rallegrarsi.
«Con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge sulla stampa, viene a cadere una vera “spada di Damocle” con cui noi giornalisti convivevamo da oltre settant’anni, il carcere, che per gli operatori dell’informazione significava lavorare con lo spauracchio di una probabile pena detentiva».
Il passo principale è compiuto.
«Certo, ora spetta al Parlamento, invitato dalla stessa Corte, a riordinare l’intera disciplina. Per noi giornalisti romani, inoltre, questa sentenza assume un valore anche profondamente storico, se consideriamo che Stampa romana, il sindacato dei giornalisti del Lazio, nacque nel 1877 a seguito di un caso nato da un duello per diffamazione. Questo per ricordare quanto lunga sia la vicenda che riguarda noi cronisti».
La Corte costituzionale ha avuto una funzione recettiva.
«Ha preso atto dell’ampia giurisprudenza europea della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha applicato l’art 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, e quindi -finalmente- la normativa europea ha ottenuto il suo ingresso ufficiale anche nel nostro Paese in base all’art 117 della Costituzione».
Il carcere per i giornalisti andava cancellato
«Anche perché questi ultimi sono già sottoponibili al Consiglio di disciplina degli Ordini regionali, con le sanzioni deontologiche. Insomma i provvedimenti “punitivi” non mancano certo. La decisione della Corte costituzionale era nell’aria, visto che il Parlamento in quest’ultimo anno non aveva assolutamente legiferato in questa materia, come pure la Corte lo aveva raccomandato».
«Abolito il carcere obbligatorio, previsto dall’art. 13 della legge sulla stampa, ora rimangono altre problematiche, come le liti temerarie, che il Parlamento dovrà assolutamente affrontare e risolvere: rischi che riguardano la sopravvivenza stessa della professione e che, se non risolti adeguatamente, continueranno a pesare su chi racconta quotidianamente i fatti». Caterina Malavenda, nota avvocata penalista esperta in diritto dell’informazione e della comunicazione, storico difensore di numerosi operatori del giornalismo italiano, è giustamente soddisfatta.
Risultato della tradizione giuridica italiana
«La Corte ha fatto il suo, ha abolito parzialmente il carcere e non poteva fare null’altro: aveva sollecitato, nell’ultimo anno, il Parlamento a predisporre una nuova disciplina che bilanciasse i due tradizionali interessi contrapposti e che cercasse di regolamentare una materia così delicata, ma la nostra assemblea legislativa si sta occupando di altro».
Un Parlamento bloccato in materia?
«Così pare, e nonostante il disegno di legge sia pendente, nelle aule parlamentari, da una decina d’anni, nulla è stato fatto. A questo punto è pure venuto meno, dal fronte legislativo, il forte stimolo di legiferare in materia, dato dalla necessità di intervenire sulla pena detentiva».
Intravede un rischio?
«Certo. Visto che è stata la Corte alla fine a dichiarare parzialmente illegittimo il carcere, il rischio, a questo punto, è che venuta meno la necessità di occuparsi della materia, il Parlamento abbandoni il disegno di legge in discussione. Non è certo un buon segnale per la libertà d’informazione».
Adesso la giurisdizione europea è più vicina.
«Per molti lustri la Cedu e la Corte di Strasburgo sono stati oggetti misteriosi, spesso ritenuti appartenenti all’universo della Comunità europea. Il dialogo tra Corte europea e giudice nazionale sembrava un tema riservato agli studiosi: negli ultimi anni, sempre più spesso i giudici italiani richiamano nelle motivazioni le decisioni europee, e gli avvocati si rivolgono a Strasburgo dopo aver esaurito le vie di ricorso interne».

Panorama.it     Egidio Lorito, 23-06-2021

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