La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha praticamente ribaltato la sentenza di primo grado del 2018: assolti l’ex senatore Marcello Dell’Utri («per non avere commesso il fatto») e gli ex ufficiali del Ros dei Carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno («perché il fatto non costituisce reato»)

  • Francesco Centonze, legale dell’ex senatore Marcello Dell’Utri: «Il riferimento alla “trattativa” è uno slogan».
  • Basilio Milio, legale del generale Mori: «La decisione rende verità e giustizia a un servitore dello Stato»
Si è concluso con un vero ribaltamento della sentenza di primo grado il processo d’appello per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri del Reparto operativo speciale di Palermo Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, condannati in primo grado a pene severe all’interno del complesso filone processuale che avrebbe dovuto fare luce sulla presunta “trattativa Stato-mafia”, ovvero sulla teoria accusatoria secondo la quale organi dello Stato, all’indomani degli attentati di Capaci e Via D’Amelio, sarebbero scesi a patti con la criminalità organizzata siciliana, la mafia ai suoi più alt livelli, per costringere i governi in carica ad adottare un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa.

Ricordiamo che la seconda sezione della Corte di Assise di Palermo, all’udienza del 20 aprile 2018, dopo cinque anni dall’inizio del dibattimento, in primo grado, aveva condannato Dell’Utri, Mori e Subranni a 12 anni di carcere e De Donno a 8 anni. Nelle 5.252 pagine di quella sentenza, i giudici evidenziarono che  «l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino» fu determinata «dai segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio».
Nel capo di imputazione, tra le altre condotte, si contestava agli imputati, a vario titolo, il reato di cui all’art. 338 c.p. (aggravato ex art. 339 c.p. e ex art. 7 d.l. 152/91) perché, «per turbare la regolare attività di corpi politici dello Stato italiano ed in particolare il Governo della Repubblica, usavano minaccia – consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali connessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni – a rappresentanti di detto corpo politico, per impedirne o comunque turbarne l’attività (fatti commessi a Roma, Palermo e altrove a partire dal 1992)».
Ora l’appello ha confermato solo due condanne, quella di Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, e quella di Antonio Cinà, entrambi boss mafiosi, mentre la condanna di Vito Ciancimino a 8 anni in primo grado era stata invece già dichiarata prescritta durante il dibattimento, scrive una nuova pagina di una lunga, complessa e misteriosa vicenda che almeno sul piano della verità giudiziale ha trovato un’altra prospettiva.
Gli imputati erano accusati del reato previsto e punito dagli articoli 110, 338 e 339 c. 2, ovvero “minaccia in concorso a un corpo politico”, costruzione accusatoria dei magistrati della Procura antimafia palermitana Nino Di Matteo e Francesco Del Bene -già a capo delle indagini nel primo grado: in pratica, secondo il teorema accusatorio, all’indomani delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, forte fu il sospetto che carabinieri e politici fossero scesi a patti con la mafia siciliana al fine di far cessare la stagione delle stragi, che avevano lasciato sul campo non solo i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le rispettive scorte. Un sospetto all’epoca corroborato dai nuovi attentati in Via dei Georgofili a Firenze, in Via Palestro a Milano, dalle autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, fino all’attentato al giornalista Maurizio Costanzo. Una trattativa con la mafia palermitana ai suoi più alti livelli per stoppare la strategia stragista: secondo i magistrati dell’accusa, politici e carabinieri avrebbero offerto l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi che si trovavano in prigione, trattando con l’ex sindaco di Palermo (condannato per associazione mafiosa) Vito Ciancimino. La tesi della difesa degli ufficiali del Ros di Palermo, invece, aveva sin da subito evidenziato come il “dialogo” instaurato dai carabinieri con gli esponenti mafiosi fosse stato, in realtà, una semplice operazione di polizia finalizzata alla cattura del “capo dei capi” Totò Riina. Sempre nel primo grado, il senatore dell’Utri -intanto già condannato in un altro filone d’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa- era stato invece accusato di aver fatto da tramite in un’ulteriore trattativa tra il 1993 e il 1994, portata avanti con il boss mafioso Bernardo Provenzano per minacciare Silvio Berlusconi -al governo dal maggio del 1994- e convincerlo a promuovere leggi favorevoli alla criminalità organizzata.
Panorama.it ha dialogato con i tre legali per saperne di più sulla lunga e complessa vicenda sulla quale si sono innestate narrazioni giornalistiche, editoriali, cinematografiche che ora dovranno confrontarsi con la sentenza
Avvocato Basilio Milio, lei ha rappresentato le ragioni difensive del generale Mario Mori:

«In effetti del collegio difensivo aveva fatto parte, anche l’illustre giurista Enzo Musco scomparso prematuramente lo scorso 11 giugno, del quale mi onoro di aver continuato e portato a termine il delicato mandato difensivo. La decisione delle scorse ore rende finalmente verità e giustizia al generale Mori e agli altri ufficiali dei carabinieri e si pone nel solco di tutte le precedenti decisioni che hanno mandato assolto il mio assistito. La formula assolutoria utilizzata in favore dell’alto ufficiale dell’Arma, ovvero “perché il fatto non costituisce reato” che porta a ritenere, secondo i giudici d’appello, nell’attesa delle motivazioni, che l’avvio dei contatti con Vito Ciancimino, nel estate del 1992, non fosse finalizzato ad una trattativa con l’associazione mafiosa, per come narrato sin d’ora, ma a carpire dal noto politico ed imprenditore palermitano, dall’ottobre del 1970 all’aprile successivo anche sindaco della citta capoluogo siciliana, delle informazioni utili per far terminare la latitanza dei boss Riina, Provenzano e gli altri latitanti, arginando così l’offensiva stragista. Dunque, si sarebbe trattato, a detta dei giudici dell’Assise d’appello, di una finalità assolutamente virtuoso e totalmente antitetico con la costruzione della “trattativa”: peraltro si tratta di un filone interpretativo già stabilito da altre sentenze, come quella che ha visto assolto il coimputato On.le Calogero Mannino che il generale Mori».

Torniamo indietro con la storia a trent’anni fa…
«All’indomani della strage di Capaci, il capitano Giuseppe De Donno incontrando casualmente su un volo per Roma Massimo Ciancimino, ebbe l’idea di chiedergli di poter contattare il padre Vito al fine di ottenere informazioni finalizzate a catturare i latitanti e a scoprire gli assassini di Giovanni Falcone, appena ucciso nel corso della strage di Capaci. Ne derivarono una serie di incontri, prima tra De Donno e Vito Ciancimino, che possiamo definire di studio, e poi, all’indomani della seconda terribile strage di Via D’Amelio, anche con il generale Mori. Nel corso di questi incontri secondo quanto stabilito in sentenze, dai carabinieri e dallo stesso Vito Ciancimino a verbale innanzi  ai magistrati Giancarlo Caselli e Antonino Ingroia, in questi incontri i carabinieri  chiesero aiuto per catturare i più pericolosi latitanti della mafia: tale aiuto non giunse da Ciancimino stesso, nonostante la sua disponibilità a fornirlo, tanto che richiese delle mappe della città  di Palermo al capitano De Donno, per poter individuare dei luoghi per poter riconoscere ed indentificare luoghi in cui potesse nascondersi Totò Riina, ma prima ancora di ricevere gli elaborati completi, venne arrestato. Solo successivamente, come sappiamo il “capo dei capi” sarebbe stato rintracciato ed arrestato dal capitano “Ultimo” che svolgeva sul campo indagini per la sua cattura. Questa è l’essenza dei contatti tra i carabinieri del Ros di Palermo e Vito Ciancimino, ovvero un’attività info-investigativa rientrante nei legittimi poteri dei Carabinieri, con un confidente da cui apprendere notizie utili per porre in essere azioni di contrasto alla criminalità mafiosa che in quegli anni dettava praticamente legge nella città di Palermo. Ricordiamo che nel corpo della sentenza di primo grado, contrariamente alle precedenti sentenze di segno contrario che si sono susseguite nel tempo e che avevano qualificato come attività info-investigativa quella dei carabinieri con Ciancimino senior, invece emerse il concetto di “trattativa”, ovvero che i carabinieri per il tramite del loro importante contatto, avessero avvicinato noti esponenti mafiosi, chiedendo cosa volessero in cambio alla cessazione immediata della strategia stragista, intavolando quindi un negoziato che avrebbe portato alla revoca di tutti i provvedimenti attuativi il carcere duro derivanti dall’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, l’anno successivo  ad opera dell’allora Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso. Ricordiamo infatti, prevede che il Ministro della giustizia, in caso di particolare gravità per l’ordine e la sicurezza nazionale e a seguito di comportamenti allarmanti di particolari carcerati, possa sospendere le garanzie del regime carcerario. In particolare, proprio all’indomani delle stragi del 1992, il Decreto antimafia Martelli-Scotti, dell’agosto di quell’anno, in presenza di “gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, si consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell'ordinamento penitenziario, per applicare “le restrizioni necessarie” nei confronti dei detenuti per mafia, con l’obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio».

Avvocato Francesco Romito lei ha rappresentato il capitano De Donno: partiamo dal dato processuale più emergente, ovvero la formula della sentenza assolutoria
«L’uso del termine “fatto” estrapolato dalla formula utilizzata dalla Corte d’Assise d’appello di Palermo per mandare assolto il mio cliente deve essere interpretato: credo sia del tutto preliminare capire cosa volessero i vertici  del Ros di Palermo  per tentare di ottenere la fiducia di Vito Ciancimino, instaurando con lui un rapporto di confidenzialità, secondo i dettami del codice di procedura penale, per indirizzarlo sulla via della collaborazione, anche approfittando della condanna definitiva in Cassazione, avvenuta nel gennaio del 1992, a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e corruzione. Dobbiamo partire da questo “fatto”: non dimentichiamo che venne individuato proprio Vito Ciancimino per una serie di motivi: era stato arrestato dal capitano De Donno già in due diverse circostanze e si era creato così un rapporto meno formale, al punto che l’ufficiale del Ros si era spinto anche a chiedere un appuntamento con il padre, iniziando una vera e propria interlocuzione. Furono mesi di conoscenza reciproca, basata sull’instaurazione di un rapporto fiduciario, con il mio assistito impegnato strenuamente a cercare di carpire quali novità stessero emergendo all’orizzonte, ovvero ad arresti di imprenditori vicini al padre. Dunque, successivamente al 23 maggio del 1992, ovvero alla strage di capaci, questi contatti si infittiscono, al punto che all’indomani del trigesimo della strage, il capitano De Donno si incontra con la dott.ssa Liliana Ferraro, magistrato e allora capo dell'Ufficio legislativo della Direzione generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, al contempo legata al giudice Falcone da risalente amicizia. Il mio cliente fece cenno proprio a questa vicenda legata ai contatti confidenziali con Ciancimino. Dunque questi incontri proseguono spediti sino alla strage di Via D’Amelio, all’indomani della quale lo stesso De Donno registra una sensazione di grande frustrazione da parte di Ciancimino, di paura, al punto che quest’ultimo, a causa dell’ulteriore emergenza dell’ accaduto, accetta addirittura di interloquire con un suo superiore, ovvero con il colonnello Mario Mori. Questo è un passaggio fondamentale nell’economia della più volte riferita interlocuzione tra Ciancimino e De Donno: infatti, se fino alla vigilia della strage in cui perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, il 19 luglio del 1992, parlare con un capitano per uno come Ciancimino che si sentiva letteralmente un “capo”  nella gerarchia di Cosa Nostra significava parlare quasi con un pari grado, dopo gli eventi del 19 luglio, Ciancimino pretese praticamente di interloquire con un superiore e fu a quel punto che il capitano De Donno, con rara intelligenza, capendo che a causa del forte shock piscologico subito Ciancimino avrebbe potuto bloccarsi nella collaborazione, concorda con Ciancimino di effettuare l’ulteriore interlocuzione del 1 agosto del 1992 con il suo diretto superiore, ovvero l’allora  Colonnello Mori. In quel periodo, in realtà il primo comandante del Ros di Palermo era il neo Generale di brigata, Antonio Subranni, ma, per come accade nei gradi dell’Arma dei carabinieri, il livello operativo era di competenza di colui che rivestiva il grado di colonnello, ovvero in quel periodo proprio dal Mario Mori che coordinava le indagini di polizia giudiziaria. Gli incontri si susseguono sino all’autunno e bisogna capire bene cosa si verificasse. Vito Ciancimino non aveva assolutamente affermato di essere pronto a collaborare, anche perché su di lui pesavano le pesanti parole di Giovanni Falcone che lo aveva definito “il più mafioso dei politici e il più coniglio dei mafiosi”. Insomma il colonnello Mori era ben consapevole di trovarsi di fronte ad un “volpone” che la sapeva lunga su quella che era l’organizzazione di Cosa nostra, da una parte, su quella che era tutto il sistema economico ed imprenditoriale di Palermo, essendo stato, come sappiamo, potente assessore ai lavori pubblici ed alle concessioni edilizie dal 1959 al 1964, quando sindaco della città era il suo collega ed amico di partito Salvo Lima, arrivando addirittura a modificare lo stesso piano regolatore della città pur di piegarlo alle esigenze di molti gruppi imprenditoriali a lui strettamente vicini. Fu in quegli anni che si realizzò il c.d. sacco di Palermo.  
Si trattava, dunque, di un profondo conoscitore della realtà palermitana, compresa la citta di Corleone, ove era nato nel 1924, e da cui, non dimentichiamolo, provenivano tanto Salvatore Riina che Bernardo Provenzano. Di fronte ad una personalità di tale spessore con la quale si stavano intavolando contatti al fine di ottenere notizie di assoluta importanza nella lotta alla mafia era necessario avere in mente una forte strategia comunicativa: porgli le domande giuste, andargli dietro nei ragionamenti, non contraddirlo sul terreno a lui più consono, assecondarlo nei ragionamenti. Insomma, prenderlo con le classiche pinze. Il suo ragionamento era sostanzialmente questo: “Io mi rendo disponibile a collaborare, ad indicarvi circostanze a voi sconosciute, vista che c’è questa situazione nella quale voi brancolate nel buio”. Dall’altra parte, le forze dell’ordine e gli investigatori avevano assoluta necessità di registrare il maggior numero di notizie e dati, insomma di conoscere una realtà in molta parte sconosciuta. Questa era l’ambiente nel quale ci si muoveva: non parliamo, poi, dei magistrati che all’indomani delle due stragi del 1992 vivevano praticamente terrorizzati, nascosti nel Palazzo di giustizia che avrebbero addirittura voluto chiudere fino a quando, come andavano ripetendo, le forze dell’ordine non avessero catturato gli esecutori materiali delle due stragi. Questo era il pesante ambiente che si respirava a Palermo tra l’estate di quell’anno ed il successivo 1993: solo strutture investigative altamente specializzate per l’epoca riuscivano ad opporre una difesa dello Stato di un certo livello, visto che le forze tradizionali territoriali non riuscivano a riportare successi, e la stessa Direzione investigativa antimafia, costituita nel 1991, era in fase di strutturazione sul territorio. D'altronde gli incontri con Ciancimino avvenivano a Roma, con tutte le cautele del caso, ed alla sua gestione provvedevano sostanzialmente i carabinieri del Ros, e bisogna riflettere su questo passaggio: intavolare un confronto trent’anni fa con Vito Ciancimino significava dialogare con un personaggio titolare di rapporti con mafiosi cui bastava far schioccare le dita per seminare terrore, e non solo in Sicilia, come abbiamo visto! Non si parlava con un qualunque manovale della criminalità locale o con un ex sindaco di qualunque altra città italiana: Palermo viveva nel terrore, con le stesse forze dell’ordine che non mettevano piede letteralmente in ben determinate zone della città, così come erano terrorizzati i magistrati! In quel clima surreale, di quasi assenza dello Stato, l’unica via di uscita era quella ci cercare di ottenere da un personaggio ostico, complesso ma addentro all’ambiente mafioso al massimo livello il maggior numero e la miglior qualità di informazioni; inoltre era d’obbligo mantenere la giusta prudenza e poi riscontrare subito il materiale informativo raccolto. Senza dimenticare la circostanza che doveva trasparire, nei suoi confronti, un’ampia disponibilità ad andargli incontro, a prestargli dei favori: quella situazione forse oggi farebbe sorridere, ma -ripeto- occorrerebbe calarsi nell’ambiente del quale stiamo parlando.
Ebbene, i riscontri all’attività del Ros sarebbero emersi grazie alle testimonianze rese da Angelo Siino.                       
Parliamo di un personaggio di altissimo livello nella gerarchia mafiosa: negli anni Ottanta, era stato definito il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, incaricato di tenere i rapporti con le amministrazioni per le tangenti sugli appalti, negli anni Novanta divenne uno dei principali collaboratori di giustizia dell'antimafia, le cui interlocuzioni proprio con De Donno e Mori sono da manuale. Gli si promettevano letteralmente “mari e monti” per fargli capire l’importanza della sua collaborazione: era il rapporto confidenziale il nucleo centrale della fase collaborativa. Al punto che, saltato il fossato, Siino vive da molti anni in una località segreta.
La collaborazione di Ciancimino fu subito fondamentale, a partire dagli stessi processi scaturiti dagli attentati del 1993.
Esatto: già dal processo di primo grado di Firenze, tra il 1996 ed il 1998, si riuscì a dare valenza probatoria alle dichiarazioni di Ciancimino, che ricostruirono degli attentati di Via Fauro a Roma del 14 maggio del ’93, di Via dei Georgofili a Firenze del 27 maggio, di Via Palestro a Milano del 27 luglio, del 28 luglio a Roma a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro, del 23 gennaio del 1994 a Roma allo Stadio Olimpico e del 14 aprile a Formello, vicino Roma. Insomma, l’intera stagione delle stragi passò sotto la lente d’ingrandimento di Ciancimino, le cui prime esternazioni, riferite alle stragi dell’esatte del 1992, iniziarono nel marzo del 1993, e la notizia della sua collaborazione fu praticamente resa subito pubblica. E la procura di Palermo, già in possesso di quei verbali, ottenne subito la conferma  dei racconti di Ciancimino, grazie a quel mandato esplorativo che Mori e De Donno avevano avuto.
Ciancimino, dal canto suo aveva tutto l’interesse a collaborare, in quanto ne avrebbe ricevuto benefici, a suo modo di vedere,  
Le pendenza con la giustizia erano gravissime: il 17 gennaio del 1992 il Tribunale di Palermo lo condannò a   in più aveva un altro problema, nell’ottobre del 1992 la Sezione prevenzione del Tribunale di Palermo avrebbe deciso, in Appello, sulla confisca di una parte considerevole del suo immenso patrimonio, e nel gennaio del 1993 la Corte di Appello di Palermo lo avrebbe giudicato contro la sentenza di primo grado che lo aveva riconosciuto appartenete a Cosa Nostra. Questo era il quadro accusatorio che gravava si di lui ed ecco il motivo per cui si mise completamente a disposizione dei carabinieri del Ros.
Ciancimino era praticamente in possesso del passepartout per arrivare a Riina e Provenzano, allora?
No, assolutamente, anche perché i due capi mafia erano ben nascosti in luoghi distinti e distanti, e vivevano assolutamente guardinghi. In realtà, fino al 1992 la stessa latitanza di Totò Riina era stata abbastanza comoda, diciamo così, per il semplice motivo per cui non c’era nessuno che lo stesse cercando, sino al blitz della mattina del 15 gennaio del 1993, diretto dal capitano Sergio De Caprio, “Ultimo” che portò a compimento la celebre Operazione belva, coordinata proprio dal colonnello Mori. Solo da questo versante potremo capire il senso di quegli anni.
Come credere ai lunghi racconti di Ciancimino?
Fu l’operazione più difficile in quei mesi, per come me l’ha sempre raccontata il mio assistito: i carabinieri erano costretti a stare al suo gioco, a credergli “sulla parola”, soprattutto per la difficoltà oggettiva di riscontrare subito la gran mole di informazioni di cui venivano in possesso, non tutte facilmente riscontrabili nell’immediatezza. Mori e De Donno capirono subito di trovarsi di fronte ad una persona che aveva tutto l’interesse di portare acqua al suo mulino, come nel caso dell’insistente richiesta del passaporto di cui Ciancimino voleva ritornare subito in possesso, accampando le scuse più fantasiose, ed alla quale i due ufficiali opposero un netto rifiuto, pena la facilmente intuibile collaborazione in atto che avrebbe portato al fallimento del rapporto assolutamente confidenziale e, quindi, dell’intera operazione collaborativa. Era il classico gioco delle parti, con queste ultime attente a non scoprire le proprie carte.
Come termina questa lunga frequentazione collaborativa?
L’ultimo incontro si tenne il 18 ottobre del 1992: Mori e De Donno vennero spiazzati perché mai avrebbero immaginato che Ciancimino avesse effettivamente accettato la collaborazione, conducendoli a disvelare anni di misteri: in pratica, la collaborazione di Ciancimino poteva apparire anche la classica boutade. Tanto che ci fu una breve interruzione, forse dettata dal timore, di entrambe le parti, di esporsi sin troppo rischiando addirittura la vita. Dobbiamo capire che i carabinieri stavano per mettere le mani sul cuore della cupola mafiosa…
La collaborazione si interruppe, allora?
Per poco: a novembre Ciancimino, per il quale i carabinieri del Ros erano diventati ossigeno vitale, contattò nuovamente De Donno per comunicargli la sua effettiva disponibilità ad andare sino in fondo, chiedendo allo stesso capitano la contropartita. Fu a quel punto che De Donno gli rivelò l’intenzione finale di questa collaborazione, ovvero stringere le manette ai polsi di Totò Riina, per fermare le stragi
In effetti, a quel momento si può far risalire l’accusa formulata ai carabinieri      
In un certo senso: vennero accusati, in questa prima fase dei rapporti con Ciancimino, di aver sollecitato delle richieste da parte dei vertici di Cosa nostra, attraverso Ciancimino stesso, in pratica! Quindi il reato di concorso nella minaccia ad un corpo politico dello Stato, come previsto dall’art. 338 c. 1 del codice penale, aggravato dalla forza intimidatrice dell’associazione mafiosa, per come prevede il successivo articolo 339, si sarebbe concretizzato in questa sollecitazione che fanno i carabinieri nel dire a Vito Ciancimino che gli facesse sapere la contropartita di Cosa nostra. Tradotto: quali richieste vorrebbero vedersi esaudire questi personaggi di Cosa nostra per mettere fine immediatamente alla stagione delle stragi. Ipotesi accusatoria per la quale Mori, Subranni e De Donno vennero condannati in primo grado a pene oggettivamente pesanti.  
Ma i carabinieri sapevano che Ciancimino avrebbero potuto portali fuori strada?
Certo, ci mancherebbe altro. Gli ufficiali del Ros avevano ben chiara la psicologia del soggetto che avevano di fronte, sapevano bene che si trattasse di un millantatore, di un bugiardo. E sapevano come comportarsi di conseguenza: sapevano bene quali “bufale” rifilargli, nel momento in cui si fossero accorti che a sua volta Ciancimino gli aveva rifilato la classica “patacca”. Le due parti vivevano giorno per giorno in un rapporto simbiotico: Ciancimino era alla spasmodica ricerca di sconti di pena ed aiuti negli ambienti giudiziari; dall’altra parte la città di Palermo si era improvvisamente ammutolita, i confidenti si erano eclissati dalla paura ed era diventata una vera “tabula rasa” quanto ad elementi investigativi

Mentre Mori e De Donno facevano questi incontri con Ciancimino, l’attività investigativa sul campo era condotta dal capitano De Caprio, “Ultimo” ed il __ detto “primo” che aveva avuto un incontro a Terrasini con il Maresciallo Lombardo, che sarebbe morto, almeno così si disse all’epoca, suicida il 4 marzo del 1995 nella caserma Bonsignore di Palermo. Ebbene, da quell’incontro venne fuori che la latitanza di Riina sarebbe stata favorita dalla famiglia Ganci: tale circostanza era la prova provata che, in effetti, Ciancimino stesse dicendo la verità. Raffaele Ganci, il boss della famiglia, che oggi sconta diversi ergastoli in regime di “carcere duro” è stato coinvolto in quasi tutti gli omicidi eccellenti di mafia, da dalla Chiesa a falcone e Borsellino, tanto per capire lo spessore criminale della famiglia titolare di macellerie a Palermo, con legami forti nell’edilizia
Come venne individuato il rifugio di Riina?
Ed infatti l’attività investigativa cui i Ganci furono sottoposti, porterà gli investigatori del Ros all’interno della celebre via Bernini di Palermo, in maniera anche abbastanza rocambolesca. Era successo, infatti, che a novembre per seguire uno dei figli di Raffaele Ganci, un ufficiale del Ros si perse letteralmente in una strada senza uscita. Intanto si registrò il dato che il figlio di Ganci si fosse recato in quella zona della città.
A Novara, l’otto gennaio venne arrestato Balduccio Di Maggio…
Quella strada fantasma di Palermo e l’arresto a Borgomanero del boss di San Giuseppe Jato segnarono l’inizio della fine per Totò Riina: si dichiarò “uomo d’onore” pronto a collaborare e la notte successiva, trasferito in gran segreto a Palermo, gli furono mostrare le immagini registrate che una telecamera nascosta, montata proprio nel punto in cui quel carabiniere si era perso in Via Bernini, continuava a registrare da giorni.  Ad un certo punto Di Maggio riconobbe una donna che usciva dal numero civico 54: era Antonietta Bagarella, la moglie del boss. Una settimana esatta dopo il suo arresto,  15 gennaio, proprio Di Maggio accompagnò a quel numero civico i carabinieri del Ros che individuarono Riina, arrestandolo.
Si diede l’avvio ad una nuova tecnica investigativa
La cattura del “capo dei capi” fu resa possibile grazie ad un’attenta e paziente conoscenza dell’ambiente fisico nel quale le forze dell’ordine si trovarono ad operare. I giovani ufficiali dei carabinieri agirono in un ambiente cittadino del tutto sconosciuto, contando non tanto su tecniche investigative quanto sul loro intuito. Non erano investigatori che passavano da una scrivania alla strada, ma carabinieri di razza abituati a cogliere il respiro della strada, a percepire gli umori della gente, le sensazioni del quartiere in cui operavano. Prudenze, accorgimenti, stratagemmi, come se si muovessero su un campo minato.
Ventotto anni dopo, chi aveva catturato Riina si sarebbe dovuto presentare innanzi ad una Corte d’assise d’appello. Strano ma vero… 
Ma la formula assolutoria pronunciata ha restituito loro giustizia. Dalla ricostruzione storica, approdata in primo grado alla loro condanna, emerse la sollecitazione delle richieste che i carabinieri fecero pervenire a Cosa nostra, fatto questo considerato sufficiente per integrare il concorso con il reato di “minaccia ad un corpo politico dello Stato”, ovvero il Governo. In realtà la norma che fa riferimento al Governo è quella contenuta nell’art. 289 del codice di procedura penale, ovvero “Attentato contro organi costituzionali”, con ricadute in termini per l’esercizio dell’azione penale, visto che quest’ultima norma ha dei tempi di prescrizione molto più brevi, mentre l’art. 338 aggravato dal 339 c. 2, ovvero aver commesso la minaccia da più di cinque persone riunite mediante uso di armi, ovvero da più di dieci persone riunite pur senza uso di armi, la pena aumentava a 15 anni, contestualmente ai termini prescrizionali
La Corte d’assise aveva emesso dure condanne
Perché il teorema accusatorio era basato su questo ragionamento: aver sollecitato, da parte dei carabinieri, le richieste di Cosa nostra, ovvero di Vito Ciancimino, era diventata la sollecitazione delle richieste ricattatorie; una sorta di concorso alla minaccia al corpo politico. Poichè le richieste di Cosa nostra erano ricattatorie e minacciose, ed erano state sollecitate dai carabinieri del Ros, questi ultimi concorrevano logicamente alla minaccia.
Ribaltate, come detto, dalla Corte d’Assise d’appello…
Semplicemente perché tale sollecitazione non è stata considerata in grado di integrare il fatto reato per mancanza dell’elemento soggettivo, cioè del dolo, in questo caso specifico, cioè intenzionalmente diretto a commettere il reato.  Che ricordiamo è composto da un elemento materiale, l’azione o l’omissione, e da uno psicologico, il dolo, la colpa o la preterintenzione.
Una bella differenza!
Nel nostro caso i carabinieri avevano condotto quella forma di collaborazione, avevano cioè sollecitato le richieste, non perché volevano favorire Cosa nostra, ma perché volevano acquisire importanti informazioni di natura info-investigativa finalizzate a combattere la mafia, a catturare i boss di Cosa nostra allora latitanti. Ed infatti quel tipo di operazione -quella collaborazione sollecitatoria- avrebbe raggiunto il suo importante obiettivo di assicurare alla giustizia il “capo dei capi”
Sembra tutto così semplice e scontato, oggi.
Oggi non possiamo neanche lontanamente immaginare cosa fosse Palermo a cavallo degli anni Ottanta e Novanta: Cosa nostra la teneva letteralmente in pugno, la città era soggiogata dai mafiosi. Un’altra epoca!  

       
Prof. Centonze, lei ha rappresentato la difesa del Sen. Marcello Dell’Utri
Il commento a caldo nasce soprattutto dalla gioia e dalla soddisfazione dell’avvocato per aver conseguito un risultato rilevante, ma è anche la gioia e la soddisfazione per rimediato ad un’ingiustizia che era stata la sentenza di primo grado, che aveva visto il mio assistito condannato a ben 12 anni di reclusione. Avendo rimediato a tale ingiustizia è stato portato sollievo ad un uomo che ha già patito tanto per la giustizia.
Nel caso di Dell’Utri, la formula assolutoria è “per non aver commesso il fatto”, ovvero?            
Si tratta della formulazione, per noi, ampiamente liberatoria, come lo motiveranno lo vedremo e se devo dire anche la verità, sono estremamente curioso di vedere come verrà motivata sia come riscontro dell’attività professionale svolta

Occorre fare chiarezza sull’imputazione contestata al Sen. Dell’Utri, anche per specificare bene la sua vicenda processuale, visto che non poche volte i risvolti giornalistici del processo hanno assunto dimensioni spesso surreali. Secondo lo schema originario dell’imputazione, si prevedeva che Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina -ovvero due delle eminenze grigie del clan dei Corleonesi, avessero incaricato Vittorio Mangano, noto alle cronache con l’appellativo di “stalliere di Arcore”, di recarsi da Dell’Utri, portandogli la minaccia mafiosa e che quest’ultimo, recepita tale minaccia, a sua volta avrebbe minacciato il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, nei primi mesi del 1994.
Professore, mi perdoni, Dell’Utri che minaccia Berlusconi?
Infatti, si tratta dell’eterna questione che ha riguardato tutte le vicende giudiziarie del dott. Dell’Utri, compresa la vicenda del concorso esterno in associazione mafiosa. Sin da allora era parso ambiguo questo collocarlo dalla parte dei mafiosi, e si ricorda che il problema, anche allora, nasceva da una particolare pressione minacciosa di Forza Italia rispetto alle aziende del presidente Berlusconi, anche divenute di natura fisica nei confronti dei familiari, al punto che nel 1975 venne costretto a nascondersi con i figli in Spagna, all’epoca del tentativo di rapimento del figlio Piersilvio. Insomma, venne rimproverata a Dell’Utri, dal profilo penalistico, che il rapporto di mediazione con le cosche di mafia, la circostanza che dell’Utri stesso si collocasse dalla parte di Cosa nostra e non da quella di Berlusconi. Si tratta di un dato rimasto sempre inesplorato o non esplorato a sufficienza, visto che è notorio che tra Berlusconi e dell’Utri ci fosse e ritengo  ci sia ancora un’amicizia di lungo corso, di quelle che non passano certamente per le  vicende giudiziarie. Amicizia più volte confermata reciprocamente: quindi questo collocare Marcello Dell’Utri dalla parte della mafia avrebbe richiesto, a mio avviso, nella nostra vicenda ed in tutta quella che lo riguarda dal 1994, ben più ampie dimostrazioni fattuali e giuridiche.
La sentenza di prima grado stessa ha in definitiva dovuto abbandonare questa pista -cioè la minaccia mafiosa di Brusca e Bagarella a Berlusconi per il tramite di Dell’Utri- perchè si fondava sulla dichiarazioni di Brusca stesso, risultato, a parer della Corte di primo grado, del tutto inattendibile: non era persona assolutamente affidabile nel momento in cui riferiva fatti su queste vicende del periodo della campagna elettorale del 1994 perché confondeva le date, faceva racconti surreali, non ricordava passaggi e momento. Quindi, ad un certo punto, essendo Brusca stato ritenuto inattendibile, la sentenza di primo grado compie una vera e propria acrobazia, resuscitando un pentito, tale Cucuzza che era stato ritenuto, con sentenza passata in giudicato dalla Suprema Corte, nel 2012, completamente inattendibile. Il primo grado lo recupera per delle specifiche dichiarazioni, relative ai veri incontri che Vittorio Mangano avrebbe avuto con Marcello Dell’Utri, ma tutti successivi, ovviamente, all’uscita di Mangano stesso dal carcere, ovvero a dopo il 1993/1994. Recuperato il pentito Cucuzza, la corte di primo grado è costretta a cambiare tesi -ovvero con la sentenza di primo grado- che Mangano non agisce più su incarico di Brusca e Bagarella ma agisce di sua iniziativa, portando cioè a Dell’Utri, la minaccia mafiosa e stragista.  Circostanza, questa, piuttosto incredibile, visto che si trattava, in ogni caso, di un personaggio assolutamente minore nelle gerarchie di Cosa nostra, che vantava, o meglio, millantava conoscenze con alcuni boss, con lo stesso Dell’Utri, ma che non possedeva nessun potere criminale di quello spessore. Dunque, la sentenza di primo grado trasforma l’imputazione. Questa era l’accusa con cui ci siamo dovuti confrontare in Appello…                                                  

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