Il Sostituto procuratore generale di Torino spiega perché, anziché velocizzarsi, il sistema verrà sommerso da una marea di ricorsi. E i processi penali pendenti non riusciranno ad arrivare a sentenza. Sparisce anche la possibilità di realizzare un sistema accusatorio pieno 

«Così come licenziata dal Consiglio dei ministri, frutto dunque di compromessi tra le forze politiche che sostengono il governo, la riforma Cartabia non mantiene a pieno ciò che prometteva. E’ stata snaturata dagli emendamenti, che, un verso, impongono una prescrizione ad assetto variabile che non dà certezze sulla durata dei processi, mentre dall’altro verso segnano la fuga dal sistema accusatorio e, dunque, dai canoni costituzionali del giusto processo». 

Otello Lupacchini analizza i tratti salienti del recente progetto di riforma della giustizia italiana. E non si sottrae alle domande sulle sue vicissitudini personali: «Vi racconto cosa mi è capitato a Catanzaro».
Elaborata dalla Ministra della giustizia Marta Cartabia, presidente emerito della Corte costituzionale e ordinaria di Diritto costituzionale e di Giustizia costituzionale alla Bocconi di Milano, la riforma del processo penale è stata salutata come una svolta epocale nella realizzazione di un meccanismo processuale penale realmente accusatorio.  
«Pia illusione di chi nulla sembra capire delle “leggi fondamentali del processo”.  Il sistema accusatorio non esiste ormai più: le “prove” tendono a formarsi nel corso delle indagini preliminari condotte dal pm, sicché il processo inquisitorio è all’ordine del giorno. E se il processo accusatorio, fondato sulla formazione della prova nel contraddittorio, si avvia irrimediabilmente verso la morte, con esso morirà anche il giusto processo sancito dalla Costituzione», sostiene ancora Lupacchini.
E’ risaputo che le riforme in materia processuale penale non dovrebbero mai essere il frutto di contingenze del momento, men che meno di compromessi al ribasso dettati da istanze di dialettica politica: ed infatti, fa notare con vigore l’autorevole magistrato, «gli emendamenti formulati dal governo alla sua stessa proposta riformatrice ne hanno edulcorato quella che era la parte migliore, la più coraggiosa: all’abbandono dell’oralità del processo penale a favore della scrittura, mediante il rafforzamento dei riti alternativi, con l’ulteriore incentivo per chi rinuncia a impugnare e il complessivo depotenziamento dell’istruzione dibattimentale, corrisponde la conferma della impostazione iperpunitiva e carcero-centrica che ha contraddistinto la produzione legislativa negli ultimi decenni. Con buona pace di quegli aggiornamenti del tutto irrinunciabili in una moderna concezione giuridica di Stato di diritto occidentale».
A sostenere questi importanti assunti è Otello Lupacchini, magistrato di lungo corso, “giusfilosofo”, come ama definirsi, di scuola bolognese, che Panorama.it ha raggiunto fin sotto le Dolomiti bellunesi della splendida conca ampezzana per una conversazione a tutto campo, partendo dalla riforma-Cartabia e passando per la sua lunga carriera interrottasi in Calabria, dove aveva preso possesso, l’otto gennaio del 2018, dell’Ufficio di Procuratore generale presso la Corte di Appello di Catanzaro.                   
Storia singolare quella di Otello Lupacchini: classe 1951, dopo aver esercitato per alcuni anni la professione forense in quel di Cortina d’Ampezzo, è entrato in magistratura nel 1979, percorrendo un lungo e prestigioso cursus honorum che lo ha portato ad indagare, tra l’altro, sugli omicidi del pubblico ministero Mario Amato, del generale Leamon Ray Hunt, del banchiere Roberto Calvi, del professor Massimo D’Antona, nonché ad occuparsi della strage di Bologna e, soprattutto, di quel mistero magmatico e mai del tutto completamente  svelato che va sotto il nome di Banda della Magliana. Ovvero dell’organizzazione criminale più potente e sanguinaria di Roma, capace di segnalarsi per i legami con la politica e gli apparati istituzionali statali, coinvolta in vicende epocali della recente storia contemporanea italiana, dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, al caso Moro, dai depistaggi nella strage di Bologna, ai suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli, dall’Ufficio Affari Riservati, (un ufficio centrale della Direzione generale della Pubblica sicurezza del Ministero dell'Interno italiano, che si occupava di intelligence interna e con funzioni di polizia politica, diretta dal 1971 al 1974 da Federico Umberto D’Amato) alle vicissitudini e morte del banchiere Roberto Calvi, dalla sparizione di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori all’attentato a Giovanni Paolo II.

Cosa vuol dire giusfilosofo?

«Glielo spiego in una battuta: poiché la scienza filosofica del Diritto ha per oggetto il concetto stesso del Diritto e la realizzazione di questo concetto, pur interessandomi, come la vita purtroppo impone, alle miserie del contingente, amo affrontare, con piglio filosofico, questioni intorno al fenomeno giuridico, sovente trascurate dai dottori e sempre dai pratici, nell'interpretazione del diritto positivo».
Un accenno alla Banda della Magliana?
«Quest’argomento, se trattato da un giusfilosofo, annoia terribilmente. Certa gente, e sono i più, preferisce la narrazione di eventi immaginari, se non addirittura approcci al tema da giuscabarettisti. Inutile, dunque, riproporre la vera storia di quell’alleanza tra mafiosi, terroristi, spioni, politici e prelati, che ha segnato un momento fondamentale della nostra storia patria e dei rapporti tra detentori del potere e criminalità organizzata». 
Dott. Lupacchini, veniamo alla riforma Cartabia, partendo dal carcere…
«Rapporto complicato, quello tra me e le ricerche giusfilosofiche sul carcere. Come Procuratore generale di Catanzaro denunciai, quando ancora nessuno ne parlava, un dato particolarmente allarmante: quello degli innocenti che finiscono senza colpa in custodia cautelare e dei soldi spesi dallo Stato in indennizzi per ingiusta detenzione».
Ci faccia capire…
«Evidenziai come il numero di vittime continuasse ad aumentare senza sosta, così come il denaro versato nei loro confronti a titolo di indennizzo; sottolineai come questa emergenza sembrasse non interessare gli addetti ai lavori, quasi che le persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un indennizzo, costituiscano un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile, di fronte alla mole di processi penali che si celebrano nelle aule dei tribunali italiani».
Conseguenze?
«Il danno inestimabile, e impossibile da risarcire, alle persone interessate, per le vite private e professionali distrutte. A tacere delle conseguenze psicologiche gravissime».
La detenzione carceraria sarà sempre meno la principale opzione nel sistema sanzionatorio. Largo, dunque, all’utilizzo delle pene alternative, allora?
«Il carcere dovrebbe essere riservato soltanto ai reati più gravi, ovvero a quelli sanzionati con pena edittale significativa. In questa prospettiva sembra muoversi la riforma Cartabia, con l’ampliamento delle ipotesi di detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria. Ma già s’alzano i lamenti degli eredi spirituali dei senatori milanesi all’epoca di Maria Teresa d’Austria, i quali ammonivano che “senza la tortura la forca è vedova”».  
A proposito: il leader della Lega Salvini si è già opposto al loro svuotamento. Posizione molto simile a quelle dei 5 Stelle
«Non voglio ripetermi, ma ci troviamo di fronte agli eredi dei senatori milanesi che alzarono gli scudi contro l’abolizione della tortura».
Parliamo di prescrizione.
«La disciplina in vigore verrà confermata: si sospenderà dopo la sentenza di primo grado, sia nel caso di condanna sia di assoluzione dell’imputato. In Appello la durata massima per i processi sarà di due anni, mentre in Cassazione di uno: termini prorogabili di un anno in Appello e di sei mesi in Cassazione per processi particolarmente complessi».
Superati questi termini perentori, cosa accadrà?
«Qui l’affare si complica ed è impossibile, senza cadere in semplificazioni inaccettabili e fuorvianti, riassumere in due battute i termini della questione. La prescrizione, nel vigente ordinamento, è una restrizione al potere punitivo dello Stato: quest’ultimo si autolimita per assicurare al cittadino, non al “colpevole”, ma all’imputato, che la macchina punitiva non lo tenga “sotto scacco e minaccia” oltre certi termini temporali, definiti in ragione della gravità dei reati. L’ordinamento ha assicurato a lungo la celebrazione dei processi più importanti, senza produrre l’estinzione dei reati. Ma col tempo non è stato più così».
Quali le cause?
«Le cause del fallimento del sistema punitivo sono molteplici e, in ogni caso, non vanno ricercate soltanto nella prescrizione, quanto piuttosto nella obbligatorietà dell’azione penale, nell’inflazione dei reati e nella lentezza dei processi, di cui la prescrizione è piuttosto un effetto».
Ma ci saranno dei rimedi?
«Ritenuto da tempo e dissennatamente di non dovere o potere intervenire sui primi due fattori, non restava che intervenire sul terzo. Ed è quel che ha fatto la cosiddetta riforma Bonafede, per i reati commessi dal primo gennaio 2020 in poi, lasciando formalmente in piedi la prescrizione sostanziale, ma anche introducendo un meccanismo di “sospensione” della prescrizione illimitata dopo la sentenza di primo grado: intervenuta una prima sentenza si arriva comunque a conclusione del processo, magari dopo mezzo secolo».
Non si tratta certo di una riforma acceleratoria del processo.
«È, infatti, per “salvare” la riforma Bonafede che la riforma Cartabia tenda a limitare la durata del processo, con una serie di interventi deflativi, ampiamente apprezzati anche se non risolutivi quanto alla riduzione dei tempi, e ponendo un vincolo temporale, due anni più uno, salvo proroghe, alla possibilità di appelli e giudizi in Cassazione sine die, che sulla carta sono resi possibili dalla riforma Bonafede».
Così il sistema è salvo!
«Niente affatto! Nella propaganda governativa si dice una mezza verità, dunque una mezza bugia, là dove si tace che sono sempre possibili successive riforme peggiorative della prescrizione ma retroattive, operando sulla parte processuale della disciplina».
Non sia oscuro anche lei…
«Essendo norma processuale quella che introduce l’improcedibilità dell’azione, essa è soggetta al principio per il quale si applica la legge processuale in vigore al tempo del processo, il canone, cioè, tempus regit actum, anche se i fatti commessi sono precedenti».
E quando ci si accorgerà che il sistema non reggerà l’impatto dei giudizi pendenti?
«Si potrà allungare ancora di un anno o due la prescrizione anche rispetto a fatti commessi prima. Cosa che non sarebbe mai possibile per la parte sostanziale della prescrizione, soggetta ai limiti dell’irretroattività delle norme penali meno favorevoli al reo, imposta dalla Costituzione».
Da tempo, ormai, si discute della strada da imboccare per diminuire il carico dei processi penali.
«Se, per un verso, è prevista l’estensione delle ipotesi di citazione diretta a giudizio, per l’altro, la riforma prevede che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato soltanto quando gli elementi indiziari già acquisiti gli consentono un giudizio prognostico verso una ragionevole previsione di condanna”, che è cosa diversa dal criterio di idoneità del materiale probatorio raccolto nelle indagini preliminari, ovvero “a sostenere l’accusa in giudizio”».
Questo, sul piano pratico, cosa significa?
«Di fatto, il gip è chiamato a esprimere una sorta di pre-condanna. A ogni buon conto, proprio quanto al controllo del gip sulle richieste del pm, anche se ciò mi ha comportato sgradite conseguenze, voglio qui tornare a denunciare, come già feci nella veste di Procuratore generale di Catanzaro, l’acritico appiattimento del giudicante sulle richieste non adeguatamente ponderate del requirente, in una inquietante corto-circuitazione, la quale si risolve in palese violazione sia della terzietà del giudice sia della parità delle armi tra accusa e difesa».
E il tradizionale principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza?
«Occorre ben altro della previsione che la sola iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non potrà determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo, quando è notorio il danno reputazionale che deriva all’inquisito dalle narrazioni propinate dall’inquirente, per promuovere i risultati delle proprie inchieste».
Ma questi risultati investigativi sembrano sempre immodificabili… 
«Esatto, sono presentati come approdo definitivo e immodificabile dell’attività d’accertamento, quasi che quella del giudice, all’esito del processo, non sarà che un inutile orpello dilatorio, comunque soggetta al giudizio della storia, se condurrà a conclusioni diverse da quelle strombazzate da chi è, ma non si sente, una parte».
Nel suo curriculum non manca nulla, Calabria compresa.
«Risalgono al 2005 i miei primi contatti, in qualità di ispettore del Ministro Castelli, inviato a Catanzaro per investigare sulle anomalie e le criticità degli Uffici di procura del distretto. Gli esiti devastanti di quell’inchiesta furono aggirati con nonchalance: nessuno pagò per le proprie malefatte, né in sede penale né in sede disciplinare. Neppure si aprì un dibattito su vicende oggettivamente gravi».
Allora la Calabria è un suo vecchio amore! Nel gennaio del 2018 vi ritorna addirittura come Procuratore generale della Corte di Appello di Catanzaro.
«Beata o maledetta ingenuità, la mia. Dopo tredici anni da quell’inchiesta dagli esiti clamorosi, salvo i defunti, ritrovai tutti al loro posto, promossi addirittura a incarichi apicali, nonostante tutto…».
Non tutto fila liscio, insomma. Catanzaro è una citta storicamente “ventosa”…
«Non mi provochi. Il “vento” mi fa tornare in mente la definizione di Will Scarlett, personaggio del film di Kevin Reynolds, “Robin Hood. Principe dei ladri”: ma non voglio rovinarmi il soggiorno montano, ricordando gli omuncoli incrociati a Catanzaro».
Già nell’estate del 2018 lei va in rotta di collisione con il procuratore capo Nicola Gratteri.
«Ho dimostrato documentalmente, perché debba tornarci sopra, come l’asserita esistenza di “uno scontro molto forte tra il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e il Procuratore generale di Catanzaro Otello Lupacchini”, sia una vera e propria “erfand schwarzes märchen”: mi passi l’uso del tedesco in terra d’Ampezzo».
Oddio, dopo la filosofia del diritto, ora pure il tedesco…
«Una favola nera prodotto di pura invenzione, a opera di esponenti apicali o rampanti della magistratura associata, politici sia en titre (in carica, nda) sia ormai ratés, (falliti, nda) direttori di giornali, editorialisti, giornalisti soi disants (sedicenti, nda) e imbrattacarte di testate nazionali, locali e on-line, influencer-marketing d’ogni tipo, inoculata nel procedimento cautelar-disciplinare a mio carico proprio da chi avrebbe dovuto avere la decenza di evitare una simile fallacia argomentativa, denominata, nel linguaggio retorico, dello “svuotamento dei pozzi”».
Ma quell’intervista a TgCom24 del 19 dicembre del 2019…
«Sono sempre ben consapevole di ciò che dico: le parole mi servono bene, a differenza di altri, sempre pronti a smentirsi e a fornire, a posteriori, l’interpretazione autentica dei propri grugniti…».
Trasferimento confermato a Torino, come Sostituto procuratore generale, il recente verdetto…
«A prescindere dal fatto che Torino è una gran bella città, che le funzioni di Sostituto procuratore generale sono altrettanto qualificanti che quelle di Procuratore generale, spesso ridotto, pro bono pacis, a grigio burocrate, e che sono più di un centinaio i ponti, i cavalcavia e i viadotti tra Salerno e Catanzaro, la condanna disciplinare è una vera e propria medaglia di cui vado orgoglioso: è la prova che sono stato un capo dell’ufficio autorevole e non, invece, disponibile a lavare la macchina di chicchessia nel parcheggio la domenica».
Ad agosto compirà settant’anni. Cosa farà un giusfilosofo in pensione? 
«Scriverò favole per bambini.»

Panorama.it                                                                    Egidio Lorito, 19/07/2021

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