Il 21 agosto del 2018 è stato un giorno tristissimo per la montagna calabrese. 10 morti, 11 feriti e 23 persone salvate miracolosamente rappresentano un bilancio troppo alto da registrare dopo una giornata passata a scoprire uno degli angoli più incontaminati dell’intero ecosistema italiano, forse il più suggestivo, affascinante e pericoloso dell’intera montagna calabrese. Non so quanti lo conoscessero prima di quell’immane tragedia il Torrente Raganello, il suo canyon e, in fondo, l’intero massiccio del Pollino, l’area protetta più estesa d’Italia, con le sue cime ben al di sopra i duemila metri -che da queste parti è roba da Everest…- con le sue faggete a perdita d’occhio, con quegli strani alberi -i pini loricati- vero reperto archeologico, divenuti, nel tempo, un mistero arboreo ed il simbolo di un Parco nazionale tra i più belli e singolari del nostro Paese. Inutile nasconderlo, anche nelle tragedie, come nei pochi flebilissimi record di questa terra, la Calabria pare destinata a rimanere ancora sconosciuta ai più, come lo è il suo territorio: le sue coste, lunghe ottocento chilometri, le sue montagne con ben sei sistemi montuosi, l’uno assolutamente differente dall’altro, i suoi fiumi, i suoi laghi, le sue foreste…
Ma qui, lungo le gole del più meridionale canyon dell’Europa continentale, questa terra detiene uno dei suoi record difficilmente battibili sul piano paesaggistico, cristallizzato in uno splendido microsistema, impensabile a queste latitudini, come se il Padreterno si fosse impegnato allo spasimo per regalare scorci paradisiaci a questa già tumultuosa regione. E poi, che il torrente prenda il suo nome dal gracchiare degli anfibi presenti in gran quantità o alle tipiche note di uno strumento musicale popolare tipico della Settimana Santa -la raganella, appunto- poco importa: l’attrattiva del canyon è andata crescendo a dismisura negli anni, a partire da quel 2 agosto del 1980 -data drammatica nell’immaginario collettivo del nostro Paese…- allorquando venne portata a compimento la prima traversata completa di questo corso d’acqua ad opera di Giorgio Braschi, Sandro Frisenda e Vito Mancini. Trentotto anni dopo, grazie all’istituzione del Parco nazionale, ad un incremento della pratica sportiva e ad una pubblicistica di settore sempre più viva, fortunatamente, il Parco Nazionale del Pollino, l’area protetta a cavallo tra Basilicata e Calabria, si è finalmente guadagnata un posto di primissimo piano tra le mete predilette di escursionisti di ogni sorta, dagli esperti sino a quelli “della Domenica”, tutti attratti dai “paradossi paesaggistici” -per dirla con Guido Piovene- che impreziosiscono questa parte d’Italia.
Alcuni anni addietro, descrivendo il montante fenomeno della pratica di sport d’avventura in Calabria, titolai “Adrenalina rafting” un mio articolo dedicato all’area, in cui avvertivo i lettori di non trovarsi nel cuore di un canyon nord americano ma tra le pareti calcaree del Pollino e dell’Orsomarso, dove la natura riserva uno spettacolo fatto di cime dolomitiche, strapiombi, salti d’acqua, il tutto immerso nel verde e nel silenzio di uno degli ultimi paradisi della wilderness, dove tra rafting, canyoning, arrampicata libera, mountain-bike, parapendio, è possibile immergersi nel gran gioco della natura. Anzi, è possibile giocare con essa! Ebbene, quindici anni dopo quel mio articolo, ritrovo, drammaticamente, lo stesso concetto espresso nelle parole di Francesco Bevilacqua, giornalista e saggista, sicuramente il massimo divulgatore del paesaggio calabrese anche grazie a migliaia di chilometri percorsi lungo questa penisola, mai disgiunti da un singolare approccio filosofico alla materia, che gli ha fatto guadagnare l’appellativo di “scopritore dei luoghi perduti”: parlo con lui della tragedia del Raganello e dell’approccio della sua ultima ricerca, e le sue parole, pesate come sempre, non mi lasciano grandi margini di manovra: “Quella del Raganello è stata una tragedia dell’incoscienza! La Protezione Civile aveva diramato un allerta-meteo e bastava anche guardare il meteo sullo smartphone per accorgersi che il rischio temporale era altissimo, eppure erano in tanti a cercare “adrenalina verde” nel Canyon del Raganello. E nessuno che abbia impedito loro di scendere nelle gole dall’unico, controllabilissimo accesso di Civita: sarebbe bastato un vigile urbano che dissuadesse la gente”.
Nell’immediatezza della tragedia aveva tuonato forte su leggerezze e responsabilità su quanto accaduto lo scorso 21 agosto: e la sua è una voce di un certo peso specifico, non solo in Calabria. Con il rischio reale che tra sequestri dell’Autorità giudiziaria, fuga degli escursionisti, perdita di fiducia per le capacità anche imprenditoriali, lo splendido paesaggio calabrese possa, ancora una volta, recitare il suo de profundis ancor prima del lancio definitivo nel panorama turistico nazionale.
Il personaggio
Francesco Bevilacqua ama definirsi “cercatore di luoghi perduti”. Quando qualcuno gli chiede cosa faccia nella vita, risponde secco: “curo una malattia epidemica in Calabria, l’amnesia dei luoghi, provo a risvegliare i calabresi dallo stato di coma topografico in cui versano. Pratico una terapia che chiamo oikofilia, ossia amore per la propria casa, la terra, il paese. Lo faccio con metodi naturali: libri, foto, filmati, narrazioni. Descrivo il mio modo di viaggiare come “viaggiar restando” che è una delle tante coniugazioni possibili di un verbo fin troppo abusato, una forma di stanzialità (in Calabria) errante (peregrinare in cerca dell’ignoto o del non più noto), una sorta di travaso tra l’anima dell’uomo e l’anima dei luoghi. I miei mezzi prediletti sono le gambe e l’istinto, affinati dalla frequentazione quarantennale di monti e valli e dallo studio altrettanto lungo di carte topografiche, scritti sul paesaggio, narrativa legata ai luoghi, diari di viaggio”. Ha scritto diciannove libri principali, quattordici li ha dedicati all’esplorazione ed alla scoperta dei parchi, del viaggio, del paesaggio, delle bellezze naturali calabresi ed alla loro percezione in narratori e viaggiatori; altri tre li ha destinati al rapporto tra uomo e natura, uno è un racconto di viaggio sulle orme del britannico Norman Douglas ed un altro è il commento a cento libri per conoscere la Calabria proposti per la lettura. Avvocato civilista ed amministrativista di professione, camminatore, scrittore, giornalista e fotografo naturalista per passione, Francesco Bevilacqua è stato ed è attivo nel volontariato ambientalista con le maggiori associazioni del settore (F.a.i, C.a.i., W.w.f., Italia Nostra): ma la sua vera passione è vagabondare e sperdersi, con le gambe e con la mente, per monti e valli della Calabria, dove -dice- sono le sue radici e, prima o poi, assumerà le sembianze di un albero, fermandosi nel luogo che, dopo tanto errare, sarà la sua ultima e definitiva dimora. Il libro che fa da sfondo alla nostra recente conversazione, “Le fantasticherie del camminatore errante” (Rubbettino, 2018), in realtà, si presenta più come un testo di filosofia che come uno dei suoi classici manuali per la montagna: “Dirò, allora, che si tratta di un libro sull’esperienza del camminare in natura come conoscenza, come erranza, come preghiera. Il tutto scritto in forma narrativa e non saggistica. La mia biblioteca è piena zeppa di libri sul camminare e anch’io desideravo scriverne uno, da anni! Prima avevo preferito, infatti, viaggiare in terre di cui avessi studiato il più possibile la geografia, la storia, la letteratura, l’antropologia, la cultura, la botanica e la zoologia, piuttosto che inanellare trofei di brevi viaggi in zone a me completamente ignote o sulle quali, magari, avevo letto i soliti servizi in carta patinata su riviste alla National Geographic”. E queste terre predilette da Bevilacqua si trovano tutte insieme all’interno della magistrale penisola calabrese: proprio quelle che, tra ottocento chilometri di coste e spiagge assolutamente diverse, sei sistemi montuosi protesi tra due mari, foreste e boschi sterminati, laghi dall’aspetto alpino, stuzzicarono gli appetiti estetici dei grandi viaggiatori che tra Sette e Ottocento diedero vita a quel celebre “Grand Tour” che incendiò le pagine di una certa letteratura colta, tra Norman Douglas e George Gissing, Edward Lear ed Henry Swinburne. Sino a quel Guido Piovene che calabrese proprio non era e a quel suo “paradosso paesaggistico”, proprio dedicato all’orizzonte di questa terra.
La filosofia.
Elogio dell’erranza e dello smarrimento: è il senso di questo libro, in cui l’autore afferma che, per trovare la via, bisogna necessariamente perderla. “Si tratta di un’affascinante narrazione di viaggi, che ci conduce per mano in terre favolose, ma anche nell’intimità riposta in ciascuno di noi. Nella prima parte -Per una archeologia del cammino- declino la personale idea del camminare come scavo, scoperta, preghiera, ascesi. In commossa consonanza con Rousseau, Hesse, Thoreau, Von Humboldt, Wordsworth. La seconda parte -Le erranze e le fantasticherie- è un alternarsi di brevi racconti di viaggio e di riflessioni sulla vita, sui luoghi, sul creato, sull’uomo. Il risultato è un magma fluido, onirico, di paesaggi, avventure, emozioni, raccolti come nel diario di un pellegrino del Medioevo che appare un pò monaco errante, un pò sciamano, un pò eremita, che anela ad una clausura nel tempio immaginifico delle montagne, delle valli, delle foreste. Tanto lontano dal mondo, eppure sempre nel cuore del mondo”.
In questa singolare costruzione di un pensiero filosofico che molti pensavano scomparso per sempre, Bevilacqua utilizza termini e concetti che, pare, oggi stiano risalendo la china: come il genius loci: “è l’antica divinità latina che proteggeva e nello stesso tempo rendeva individuale e unico il luogo. Spirito guida del luogo, rappresenta il “senso” profondo del luogo. Nullus locus sine genio (non c’è luogo senza genio) scrive Servio. Un preciso riferimento al Genius loci è presente in due passi dell’Eneide. Per gli antichi greci era il Daimon, lo spirito adempitore della vera missione di un uomo sulla terra. Per Paolo D’Angelo il Genius loci rappresenta l'identità estetica del luogo. Christian Norberg-Schulz, richiamandosi al principio di individuazione di Carl Gustav Jung, osserva che anche i luoghi tendono ad autorealizzarsi. Dunque, un luogo non può divenire -pena la sua dissoluzione- ciò che non voleva essere”. O come il celebre pensiero meridiano, “espressione coniata da Albert Camus in “L’uomo in rivolta” per richiamare lo spirito greco antico che pone al centro della riflessione filosofica il rapporto originario e profondo tra uomo e natura. Si intravede, qui, una contrapposizione tra due distinte concezioni del mondo: una nord europea, basata sulla rimozione del rapporto con il sacro e con la natura; l’altra sud europea, che propugna, invece, un intreccio armonico tra umano, divino e naturale”. E proprio intorno alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, alcuni studiosi, tra cui il sociologo pugliese Franco Cassano, il filosofo Mario Alcaro e lo storico Piero Bevilacqua, entrambi calabresi, si ritrovarono a sviluppare le tesi di Camus, propugnando un pensiero del “Sud che pensi il Sud”. Il Sud diviene soggetto di pensiero proprio e dismette gli abiti dell’oggetto di pensiero altrui. E’ una rivendicazione di autonomia culturale, etica, spirituale innanzitutto e poi anche politica. E’ la nuova scommessa culturale, dopo tremila anni di pensiero filosofico, che pare sia approdata lungo le coste di questa nuova “Magna Graecia”. Dunque, un camminare nella natura e, soprattutto un camminare per la natura, sembrano essere i messaggi che Francesco Bevilacqua ama lanciare a bordo delle sole sue gambe, ormai ben rodate lungo il sentiero meridiano alla scoperta di una Calabria sempre più nuova e sempre meno sconosciuta. Come in fondo gli era capitato, appena qualche anno addietro, nel ripercorrere il medesimo itinerario compiuto, agli inizi del ‘900, da Norman Douglas (1868-1952), un cosmopolita nativo di Thuringen, nel Voralberg, in Austria, da una famiglia che vantava ascendenze nobiliari, e che ben presto, dopo il trasferimento in Inghilterra, iniziò a provare una vera infatuazione per i viaggi e le escursioni: come quando si trasferì a Napoli, sulla collina di Posillipo e poi a Capri, dando il via alle sue numerose incursioni in Calabria, terra praticamente sconosciuta all’opinione pubblica del tempo ed invece ben nota ai nobili ed ai viaggiatori dell’Europa colta e raffinata che abbandonavano le fredde lande del centro e del nord per tuffarsi a scoprire il solare paesaggio della Magna Graecia. “Acquistai Old Calabria verso la fine degli anni Settanta a Firenze, dove studiavo all’università, alla libreria Feltrinelli: mi attrassero soprattutto il titolo e la collocazione in bell’evidenza su uno scaffale del reparto libri di viaggio: è inutile dire che sapevo ben poco di colui che sarebbe divenuto, di lì a poco, il mio amico Norman. Sulla copertina beige campeggiava un dipinto dai colori cupi: ritraeva una comitiva che a dorso di un mulo scendeva per sentieri fangosi verso un paese del versane calabro dello Stretto di Messina, con di fronte il mare e la mole innevata dell’Etna (…). Ma, quel che più importa, il suo contenuto era una miniera di aneddoti, storie, divagazioni, avventure, descrizioni colme di stupore e poesia, di luoghi, paesaggi, persone all’inizio del Novecento (…)”. Un acquisto quasi casuale sarebbe diventato, insomma, il libro “cult” della sua vita, la scintilla che avrebbe fatto detonare un’esplosione interiore per scoprire la penisola calabrese che, cento anni dopo, appare ancora l’obiettivo primario del suo viaggio in natura. E così, seguendo le labili tracce dell’eccentrico e colto viaggiatore britannico di origini austriache, Bevilacqua non solo ha dato alle stampe un singolare volumetto posto a metà strada tra la descrizione paesaggistica e la profonda riflessione filosofica -“Sulle tracce di Norma Douglas. Avventure fra le montagne della vecchia Calabria, Rubbettino, 2012- ma si è ormai trasformato in un camminatore intento a solcare ogni sorta di sentieri, da quelli che seguono le coste a strapiombo sul mare del mito a quelli che risalgono, a fatica, le vette delle montagne di Calabria, da quelli che attraversano boschi e foreste fittissime avvolte nel buio, a quelli che sboccano su laghi, fiumi e cascate improbabili. Norman Douglas era sceso in Calabria quando il mito avvolgeva ogni cosa, compresa la conoscenza di questa terra, praticamente nulla; Francesco Bevilacqua, novello escursionista e fine narratore, ritorna su quegli stessi itinerari chiedendosi cosa sia effettivamente cambiato nella sua terra. E sulle quelle montagne, dal Pollino all’Orsomarso, dalla catena Costiera alla Sila, dalle Serre all’Aspromonte, Bevilacqua cerca, il “genius loci”, sperando -forse- che gli spieghi il perché di quel cambiamento. Ecco il suo messaggio subliminale: contemplare la bellezza e riflettere sulla “Calabria da ri-scoprire” per il suo straordinario paesaggio e su quella da “ri-coprire” per le tante nefandezze perpetrate dai suoi odierni abitatori.
Una riflessione, oggi, più che mai necessaria…
Egidio Lorito
Montagna. Rivista quadrimestrale di cultura alpina N. 39 aprile 2019
Riferimenti fotografici