Conosco Giampiero Mughini dal febbraio del 1992. Gli scrissi una timida lettera, che conservo tra i miei più gelosi ed orgogliosi cimeli epistolari, con l’intento di avviare con lui un dialogo su alcuni temi che mi stavano appassionando in quel periodo -la politica italiana, su tutti- oltre che -come negarlo…- su quella passione epidermica che ci accomuna, ovvero quella squadra di calcio contraddistinta da una divisa a strisce verticali bianco-nere che è entrata nella vita di molti appassionati di questo Paese. Tra amore e odio. Quando si cerca di contattare un personaggio della cultura, del giornalismo, della politica -insomma, qualcuno di famoso- si può facilmente correre il rischio che la tua bella comunicazione passi inosservata, persa nel dimenticatoio se non addirittura cestinata: con Giampiero Mughini ciò non accadde.
Nel libro “Comprati e venduti” di Claudio Fava le storie dei cronisti in pericolo per aver scritto della ‘ndrangheta
“Non esiste luogo d’Europa in cui siano stati uccisi tanti giornalisti come in Sicilia. Otto in poco meno di vent’anni: tutti per mano mafiosa. Eppure non esiste nazione civile in cui la memoria dei giornalisti ammazzati sia stata così sfigurata come in Italia. Fino a pochi anni fa, se cercavate quegli otto nomi nella cronaca della commemorazione, alcuni di loro non figuravano mai. Peppino Impastato, Mauro Rostagno, Beppe Alfano. Storie limpide, schiene dritte. Caduti da giornalisti per ciò che avevano scritto e raccontato: ma senza il tesserino rosso dell’Ordine in tasca. Dunque abusivi, in vita e in morte. Tranne per coloro che li uccisero (…)”.
Incute subito la copertina. Una mano insanguinata ne stringe un’altra in una stretta che poco o nulla di augurale fa presagire. Poi, notando le giacche e due polsini bianchi, intuiamo che potrebbe trattarsi di due notabili, di due impettiti esponenti di chissà quale consorteria politico-affaristica: almeno questa è l’immagine forte che anche il più distratto osservatore ne ricava. “Colletti” o polsini bianchi, poco importa: il sangue cola copioso! Dello stesso colore del titolo e di un sottotiolo posizionato in alto quasi a rimarcare la forza “apicale” politico-affaristico-criminale che la ‘ndrangheta riesce ad impersonare fino ad oggi, nel momento esatto in cui questo saggio vede la luce. Devono colpire subito il lettore -titolo e sottotitolo- di colore rosso-sangue, su uno sfondo nero, cupo, dal quale il bianco di quei polsini risalta immediatamente. “White collar crime”, criminalità dei colletti bianchi, direbbero i sociologi della devianza…
Antropologo a “tutto tondo”, ricercatore eternamente “on the road”, fine docente universitario in quel di Arcavacata, intellettuale di razza come pochi se ne incontrano alle nostre latitudini, Vito Teti è, soprattutto, un cantore di paesi abbandonati, di nostalgie di migranti, di malinconie di poeti in fuga, di cibo e di invenzione dell’identità. Insomma, un contemporaneo story-teller che agisce con la lente dello scienziato per rintracciare, analizzare e far emergere quanto della civiltà di un popolo non sia stato definitivamente gettato nel dimenticatoio della storia. Storia che potrebbe apparire minore, -microstoria, quella con la “s” minuscola- ma che poi ricercata e tramandata come solo i grandi osservatori sanno fare, diventa narrazione collettiva di un popolo, di una cultura, di un’identità geografica.
Questa volta forse non occorre tirare in ballo né Guido Piovene né Giuseppe Berto e neanche Cesare Pavese che calabresi non lo erano nemmeno lontanamente salvo, poi, innamorarsi di questa terra appena vi misero piede per i motivi più disparati: addirittura, Berto avrebbe scelto di farsi seppellire nella “sua” Capo Vaticano, dopo donchisciottesche battaglie in difesa di uno dei promontori più belli al mondo. E forse, risalendo geograficamente, non occorrerà neanche citare i grandi viaggiatori mittleuropei che tra il XVIII ed il XX secolo scelsero la Calabria come meta del tradizionale Bildungreise, quel viaggio di istruzione e formazione tipico delle classi agiate e colte delle società europee.