Un tornado si è abbattuto sulla giunta di Torre del Geco, popoloso comune dell’interland napoletano, a sud-est del capoluogo regionale: su richiesta della locale Procura della Repubblica, coordinata dal Procuratore capo Alessandro Pennasilico, il Gip presso il Tribunale, Antonio Fiorentino, ha emesso quattordici ordinanze di custodia cautelare per associazione per delinquere finalizzata al voto di scambio elettorale, voto di scambio elettorale, attentati contro i diritti politici del cittadino, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio, favoreggiamento, detenzione illegale di armi da sparo comuni e da guerra. In pratica, denaro contante per venti/trentacinque euro, generi alimentari contenuti in pacchi ed anche posti di lavoro erano stati promessi in cambio di preferenze nel corso della tornata elettorale del 10 giugno del 2018, quando il centro campano si era recato alle urne per rinnovare il proprio assetto amministrativo.
Sembrava essere stata definitivamente consegnata alla ricerca storica la stagione delle stragi, quel biennio 1992-1993 che vide vittime prescelte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, assieme ai valorosi uomini della scorta ed ai civili uccisi negli attentati di Via dei Georgofili a Firenze, e di Via Palestro a Milano.
Ora si dovrà parlare di triennio, partendo dal 9 agosto del 1991 quando, lungo la strada che collega Campo Calabro e Villa San Giovanni, in località Piale, alle porte di Reggio Calabria, un commando intercettò l’auto su cui viaggiava Antonino Scopelliti, 56 anni, Sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione: i due killer, a bordo di una motocicletta, esplosero numerosi proietili calibro 12 da fucili caricati a pallettoni, non lasciando scampo al giovane magistrato che finì la sua corsa nel terrapieno sottostante, morendo sul colpo. Un sinistro stradale, la prima ipotesi, poi l’ispezione cadaverica non lasciò dubbio alcuno: Antonino Scopelliti era stato ucciso, ma senza bombe o azioni plateali. Colpito mentre da solo, alla guida della sua auto, se ne tornava a casa dopo una giornata al mare, per cercare sollievo in un periodo di grande stress lavorativo, che lo vedeva impegnato a preparare il rigetto, innanzi alla Corte di Cassazione, dei ricorsi presentati dai difensori della cupola mafiosa, quegli esponenti condannati all’esito del Maxiprocesso a Cosa Nostra.
Regge al primo grado il processo istruito contro la ‘ndrangheta trapiantata in Svizzera, nel comune di Frauenfeld, nel Canton Turgovi, tra Zurigo ed il lago di Costanza. Il Tribunale di Locri, presieduto da Fulvio Accurso, ha infatti condannato nove imputati accusati, a vario titolo, di essere intranei ad un’associazione per delinquere di stampo mafioso operante nella cittadina svizzero-tedesca di Frauenfeld.
Le indagini, avviate nel gennaio 2012 dalla Dda di Reggio Calabria ed all’epoca dirette proprio da Nicola Gratteri e passate, poi, nel marzo del 2016 al collega Antonio De Bernardo, erano risalite sino agli anni ‘70, dimostrando come già all’epoca il gruppo criminale calabrese, proveniente dal vibonese, si era perfettamente inserito, tra le pieghe dell’emigrazione, nel tessuto socio-economico svizzero, arrivando a contaminarlo con tutta una serie di azioni criminali non sfuggite, nel tempo, alle ricostruzioni dell’attenta polizia svizzero-tedesca.
I finanzieri del Comando provinciale di Cosenza, nell’ambito dell’operazione denominata “Platone”, hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip del Tribunale di Castrovillari su richiesta della Procura della Repubblica coordinata da Eugenio Facciolla, a carico di pubblici amministratori, tecnici ed imprenditori del Comune di Cariati, nell’alto Jonio cosentino, al centro di indagini per corruzione, abuso d’ufficio, turbata libertà degli incanti e abusivismo edilizio.
A finire ai domiciliari sono stati Filomena Greco, sindaco di Cariati, Giuseppe Fanigliulo, dirigente dell’area tecnica dello stesso ente, Saverio Greco, imprenditore e fratello del primo cittadino e Cristoforo Arcovio, imprenditore e responsabile delle ditta che si occupa dello smaltimento dei rifiuti, mentre Sergio Salvati, vicesindaco di Cariati, risulta sottoposto all’obbligo presentazione alla Polizia giudiziaria.
Il governatore della Regione Calabria Mario Oliverio torna libero e rientra alla guida dell’ente regionale. E’, questa, l’attesa decisione della VI^ Sezione della Corte di Cassazione che, accogliendo la tesi difensiva degli avvocati Armando Veneto e Vincenzo Belvedere, ha annullato senza rinvio il provvedimento cautelare dell’obbligo di dimora nella sua città di residenza, San Giovanni in Fiore, cui Oliverio era sottoposto dal 17 dicembre scorso. Presidente della giunta regionale, esponente del Partito democratico, Oliverio risultò destinatario di una delle 16 misure cautelari emesse dal Gip distrettuale su richiesta della Procura distrettuale di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta denominata “Lande desolate”, condotta dalla Guardia di Finanza di Cosenza: le complesse indagini economico-finanziarie, avevano evidenziato “il completo asservimento dei pubblici ufficiali alle esigenze del privato imprenditore”, ovvero Giorgio Ottavio Barbieri, in carcere quel giorno e successivamente posto ai domiciliari, impegnato nel completamento dell’aviosuperficie di Scalea, lungo la costa tirrenica cosentina, e nella realizzazione degli impianti sciistici di Lorica, in Sila, ed accusato di presunti rapporti con la cosca tirrenica cosentina dei Muto di Cetraro.
Con la conferma delle tredici pesanti condanne (tra esse ben dieci ergastoli) ad altrettanti capicosca del Tirreno cosentino ad opera della Corte d’Assise di appello di Catanzaro (Presidente Loredana De Franco, a latere Caterina Capitò), si è concluso il secondo grado del processo “Tela del Ragno”, relativo all’omonima inchiesta che nel 2012 portò alla luce le azioni criminali di ben otto clan di ‘ndrangheta attivi lungo la costa tirrenica cosentina. Numerosi omicidi vennero subito inquadrati dagli inquirenti in una vera guerra per il controllo militare della costa tirrenica calabrese, ricadente nella provincia di Cosenza, e che si era scatenata tra il clan definito Serpa-Tundis-Bruni, capeggiato da Nella Serpa, passata alle cronache giudiziarie come “Nella la bionda”, prima donna a capo di un clan di ‘ndrangheta, già condannata in via definitiva a 18 anni di reclusione e oggi all’ergastolo per gli omicidi dalla stessa ordinati, organizzati e diretti, ed il gruppo rivale detto Martello-Scofano-Ditto.