2019

I mafiosi nigeriani usavano una chiesa come covo per la refurtiva

Può una mafia spadroneggiare nel territorio storicamente occupato da un’altra organizzazione mafiosa? Sembrerebbe impossibile, ma pare che le cose stessero proprio così, e non da oggi, a Palermo, dove da alcuni anni la mafia nigeriana, detta “mafia di Langtan” -dal nome dell’omonima città della Nigeria- si era elevata al rango di potenza criminale. Nata una quarantina di anni addietro a seguito della crisi petrolifera che destabilizzò il Paese del centro-Africa, era riuscita a mimetizzarsi all’interno dei devastanti scontri etnico-politici nigeriani, riuscendo ad imporsi grazie a metodi medievali che l’avevano consacrata come una delle più pericolose organizzazioni criminali del mondo. E a Palermo i nigeriani avevano messo radici salde, se è vero che negli ultimi tre anni quella di ieri è la terza maxi-operazione che vede coinvolti i gruppi di origine africana che, all’ombra del Monte Pellegrino, avevano assunto il teutonico nome di “Viking”. “Oggi è stata colpita la cellula di una organizzazione che opera a livello nazionale e transnazionale, che è quella dei Viking.

Nuovo duro colpo al clan Grande Aracri di Cutro (Kr): arrestato anche il presidente del consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, di FdI

“Questo è il seguito di Aemilia: gli arresti di stamane dimostrano come anche in questa regione non bisogna abbassare la guardia: l’Emilia-Romagna è un territorio sano, con anticorpi a questi fenomeni, ma essendo ricco rimane certamente a rischio infiltrazione”. Il procuratore capo della Repubblica di Bologna Giuseppe Amato e la titolare dell’inchiesta, Beatrice Ronchi, nel corso della conferenza stampa hanno centrato il senso e lo sviluppo dell’ultima imponente operazione anti-‘ndrangheta, denominata favolisticamente “Grimilde”. Trecento agenti della Polizia di Stato dell’intera Emilia Romagna -Reparto Mobile di Bologna, Reparto volo Emilia Romagna, Reparto Prevenzione Crimine Emilia Romagna, Unità Cinofile della Polizia di Stato- hanno dato esecuzione alla corposa ordinanza cautelare firmata dal Gip Alberto Ziroldi che ha assestato un altro durissimo colpo al potente clan di ‘ndrangheta, quello dei Grande Aracri di Cutro, nel crotonese, da tempo egemone in tutta l’Emilia Romagna.

Rocco Morabito, superboss della ‘ndrangheta e re della “coca milanese” è fuggito dal carcere di Montevideo

E’ stato più veloce dell’estradizione in Italia. Rocco Morabito, boss della ‘ndrangheta e re indiscusso della “coca milanese”, è riuscito a far perdere le tracce dal penitenziario “Central” di Montevideo, in Uruguay: è stato il quotidiano “El Observador” a confermare la notizia del Ministero dell’Interno. Era ormai pronto per far ritorno in Italia, dopo che lo scorso marzo le autorità di Montevideo avevano prestato l’assenso per l’estradizione. Rocambolesca, come la sua vita, anche la fuga dal carcere nazionale: pare che abbia riguadagnato la libertà con due compagni, fuggendo nientemeno che da una delle terrazze dell’istituto penitenziario, ubicato nel bel mezzo della popolosa capitale. 53 anni, era stato costretto a terminare la lunga latitanza, iniziata nel 1994, nel settembre del 2017 quando venne scovato in un albergo della capitale, ove viveva con il nome di Francisco Cappelletto, un imprenditore brasiliano di 49 anni.

Inchiesta ad Avellino sull’assistenza ai diversamente abili.
Dopo 12 anni di investigazioni, la Procura rinvia a giudizio la famiglia di Ciriaco

Non ha fatto neanche in tempo a godersi una nuova e sorprendente vittoria elettorale alla veneranda età di 91 anni che per Ciriaco De Mita -rieletto sindaco della sua  Nusco- più volte ministro, presidente del Consiglio dei ministri nel 1988 e leader storico della corrente di sinistra della Democrazia cristiana, si è palesata nuova bufera giudiziaria. Ma questa volta innanzi ad un tribunale non dovrà presentarsi uno dei simboli del Pentapartito da Prima Repubblica: tra le dieci persone rinviate a giudizio dal Gup del tribunale di Avellino, nell’ambito di un’inchiesta che riguarda l’assistenza agli spastici, risultano la moglie Annamaria Scarinzi e le figlie Simona e Floriana. Le indagini avevano fatto emergere come un corposo flusso di denaro proveniente dai conti correnti di due “onlus”, l’“Aias Avellino” e “Noi con loro” -quest’ultima fondata e presieduta proprio dall’ex first lady- che si occupavano di assistenza sociale a persone gravemente disabili, fosse stato fatto confluire verso due società con sede nella città capoluogo dell’Irpinia che operavano nel settore informatico e persino nella gestione di un esercizio commerciale, nello specifico un bar. “Fondi destinati a finalità pubbliche”, aveva scritto il gip, “divenuti invece profitto esclusivo di una cerchia di persone” che erano state scoperte essere vicine alla moglie dell’ex presidente del Consiglio dei Ministri.

A quarant’anni dall’omicidio del padre

Quando il 21 luglio del 1979, dopo aver sorseggiato un caffè nella caffetteria Lux di via Di Blasi, a Palermo, Boris Giuliano cadde sotto i colpi esplosi con una Beretta 7,65, a poca distanza ed alle spalle, da un sicario del calibro di Leoluca Bagarella, si intuì che la mafia aveva eliminato non solo un poliziotto abile ed intelligente, all’epoca capo della Squadra Mobile del capoluogo siciliano, ma -soprattutto- un servitore dello Stato destinato, immediatamente, ad entrare nell’Olimpo delle indimenticabili vittime dell’arroganza e dello strapotere criminale mafioso. Uno di quelli, forse mai del tutto ricordato pubblicamente per come avrebbe meritato, che invece ha trovato nel cuore della gente comune il suo luogo della memoria. Gente comune e familiari che avrebbero dovuto attendere addirittura sino al 1995 per assistere alla condanna all’ergastolo, all’esito del processo, dei boss mandanti di quell’omicidio, quali Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Francesco Madonia, Giuseppe Calò, Bernardo Brusca, Nenè Geraci e Francesco Spadaro, oltre che dello stesso esecutore materiale del delitto.

La rinascita di Scampia, quartiere diventato nel tempo emblema di degrado civile

Un progetto da 27 milioni porterà alla riqualificazione delle “Vele”. Che erano nate come simbolo
Quando furono realizzate, grazie alla legislazione sull’edilizia pubblica residenziale del 1962, su appalto della Cassa per il mezzogiorno, le “Sette vele di Scampia”, progettate dall’architetto Franz Di Salvo, un urbanista innovatore di fama mondiale, divennero il fiore all’occhiello dello sviluppo della città di Napoli: facevano parte di un ambizioso progetto abitativo che prevedeva la realizzazione della nuova realtà socio-economica del capoluogo campano. Oggi, dopo quasi sessant’anni ed un fallimento, nel tempo, di quell’ambizioso progetto di integrazione urbana e sociale, le “vele” sono assurte a monumento dell’abbandono e del degrado, dello spaccio della droga e del predominio, spesso incontrastato, della criminalità organizzata, che qui assume le sembianze delle giovani gang che dalla periferia mettono a ferro e fuoco anche le vie più centrali di Napoli. E così, dopo i primi abbattimenti, tra il 1997 ed il 2003, di tre enormi costruzioni, proprio quest’anno il Comune ha lanciato il nuovo step, denominato “Restart Scampia”, un progetto da 27 milioni di euro che porterà alla demolizione di altri tre palazzoni ed alla riqualificazione conservativa dell’intero quartiere, passando per la ristrutturazione dell’unica vela, quella celeste, che verrà salvata e che diventerà la nuova sede della Città Metropolitana.

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