Scrivere un libro significa, quasi sempre, tradurre in parole quello strato sottile e nebuloso della nostra anima che sfugge e si nasconde alla parte sociale del nostro Io”. Di recente, recensendo un libro intenso e drammatico che avrò l’onore e l’onere di presentare a giorni a Praia, mi aveva colpito proprio l’incipit della presentazione, scritta da una donna per un’altra donna, autrice-attrice-protagonista dell’opera.
Spero di riuscirci. Dovrei citare Cicerone e Jacques Derrida, Aristotele e Michel Foucalt, Sant’Agostino ed Erich Fromm, Montaigne e Dino Buzzati, La Boétie e Kant. Invece preferisco abbracciare quanti stanno seguendo questa rubrica quindicinale e dire loro semplicemente… grazie! Ci sarà pure un motivo se in tanti hanno manifestato affetto e cordialità, vicinanza e pura gratitudine ai pensieri che con molta modestia ho messo nero su bianco in appena quattro puntate di questa bella rubrica: ci sarà pure un motivo se tanti sono andati anche oltre, scrivendomi via e-mail commenti e riflessioni o notificandomi splendidi sms.
C’è un piccolo angolo di Paradiso nell’immaginaria triangolazione tra Capo Palinuro a nord-ovest, il Parco Nazionale del Pollino ad est e capo Scalea a chiudere a sud-est: un lembo di terra e mare nel quale la natura ha deciso di lasciare in perenne eredità il meglio di sè. Siamo nel Golfo di Policastro, nell’esatto punto di incontro di ben tre Parchi Nazionali (il Cilento-Vallo di Diano, nel basso salernitano, il nascente Sirino-Val D’Agri, nell’area del lagonegrese ed il Pollino, confine naturale tra Calabria e Lucania) che, quasi senza soluzione di continuità, si presentano come un’unica grande area protetta nella quale, grazie ad un’interminabile teoria di vette appenniniche e colline tondeggianti che cedono il passo ad insenature e spiagge dai nomi mitologici, l’intero territorio -per ragioni storiche ed aspetti geo-morfologici- non può non catturare lo sguardo anche del più distratto osservatore.
Me l’ammiro ogni volta con lo sguardo del bambino estasiato che rimane immobile davanti ad un’immagine dolce. Verso Maratea, oltre che per i natali, nutrirò per sempre un sincero sentimento debitorio: sarà per la mia paterna ascendenza lucana, per la natura mozzafiato che lungo una trentina di chilometri di costa e parallelo entroterra, si è ingegnata al meglio per regalare tutto ciò di cui un’esteta possa aver bisogno;sarà per quel senso di rispetto e riproposizione di antichi valori -forse tutti lucani- altrove svaniti nel nulla, ma non esagero se affermo che la sua comunità può e deve andare fiera per come Maratea sia riuscita a conquistarsi, nell’ultimo cinquantennio, un posto di primissimo piano nel panorama turistico nazionale ed internazionale.
Sarebbe difficile negarlo: il tema dell’amicizia mi affascina da almeno un ventennio, da quando -durante gli anni del liceo- la docente di latino e greco ne amplificò a dismisura i confini, proiettati ben al di là della dimensione scolastica. Erano gli anni in cui leggere e commentare il “De Amicitia” di Cicerone permetteva a noi, che vent’anni non avevano ancora, di scoprire un mondo fatto di speranze e sogni, di amori e delusioni, di sussulti e pensieri tutti incentrati alla conquista di un sentimento forte, una fiducia, di un amore, che andava conquistato con l’amicizia, soprattutto.
Raccolgo volentieri l’invito dell’amico Mario Lamboglia di avviare una collaborazione sulle pagine de “L’Eco” la cui diffusione si è ormai allargata ad un territorio che merita una maggiore copertura mediatica: lo faccio volentieri, anche in virtù delle mie origini calabro-lucane che non possono che spingermi ad approfondire temi ed aspetti di un territorio che vorremmo tutti lanciato verso ben altri obiettivi.