Non so come stiate voi lettori di Basilicata, ma qui in Calabria -almeno in quella che dovrebbe essere il cuore della Politica- la situazione è alquanto drammatica. Non passa settimana che vengano alla luce le malefatte -per ora solo presunte, per carità- di esponenti della classe politica regionale, di quella che attualmente sta reggendo le sorti di questa Regione. Non me ne vogliano i lettori orientati a sinistra di questo quindicinale, che so essere molti nella vicina Lauria: il governo di centro-sinistra, guidato da Agazio Loiero, passerà come il peggiore della storia di questa terra, da quando -nel 1970- le Regioni vennero istituzionalizzate sul piano sostanziale.
L’avevo promesso: senza peli sulla lingua! E allora riprendiamo il discorso. Mi dispiace per qualche lettore dal palato fine, ma questa mia rubrica non è nata per fare da sviolinamento a quel personaggio o quel gruppo politico-familiare, locale o nazionale che sia. Il vassallaggio ed il baronaggio sono finiti da tempo, anche se qualche “grosso” cognome locale -nel senso di calabro-lucano” vorrebbe atteggiarsi a signorotto della vita professionale, culturale, sociale, economica e politica.
Ormai ne ho la certezza: se voglio lasciare il segno come giornalista, devo rischiare di toccare persone ed argomenti che l’opinione pubblica considera “intoccabili”; devo affrontare tematiche scomode, forse anche pericolose, con il rischio di accendere fuochi difficili da domare. Sarà, ma ormai preferisco questo tipo di giornalismo, il “civic journalism” di matrice anglosassone, alla sterile copiatura di comunicati stampa, di veline e commenti che provengono dai soliti centri di potere istituzionale. E così, dopo due anni di articoli su questo quindicinale, un nuovo libro pronto alla stampa, mi sono deciso ad alzare il livello della dialettica giornalistica, anche a costo di dovermela vedere con il solito potentuccio di turno, cui proprio la stampa libera non deve andare giù.
Mi dispiace per invidiosi, menagramo e grilli parlanti, ma anche questa volta il colpo è riuscito. Un paio di mesi fa ricevo un’inaspettata telefonata da Rolly Marchi, il “Signor Trofeo Topolino”, l’instancabile animatore degli ultimi sessant’anni di vita sulla neve, di quell’impareggiabile mondo sportivo e mondano che è il “circo bianco”; ma anche il cantore delle sue Dolomiti, quelle di Lavis, poco sopra Trento, come delle immacolate Tofàne, vanto della superba e ricercata Cortina. Con Rolly Marchi ho costruito negli ultimi mesi un rapporto splendido: nel 2005, in occasione della pubblicazione del mio “Tracce di Calabria”, l’avevo onorato di una bella citazione, riprendendo un passo -romantico e struggente- del suo “Neve per dimenticare”: uno dei vati del bel mondo dello sci internazionale raccontava la montagna con levità, competenza tecnica e affetti reconditi. Sottoscrivevo appieno, da buon meridionale, le sue parole, perchè anche a diverse latitudini e sotto picchi che non sono spettacolari come le sue Dolomiti, la sensazione di passione per la montagna è la stessa.
C’è da non stare allegri. Negli ultimi giorni abbiamo appreso che un autorevole istituto italiano di ricerca socio-economica ed un prestigioso quotidiano americano hanno tratteggiato a tinte fosche la situazione italiana: il primo, senza mezzi termini, ha definito una “poltiglia” la società italiana, accrescendo ancor di più l’immagine di una realtà che già in molti avevano descritto come disgregata, scollata, in dissoluzione. Il medium cartaceo statunitense avrebbe poi rincarato la dose additando al nostro Paese l’assoluta incapacità di rigenerasi, di difendere le proprie istituzioni, di non dare un’immagine positiva di sé all’esterno e -cosa ancor più grave- di non essere di buon esempio per la stessa realtà interna: tanto che il Presidente Napolitano -in America per un viaggio istituzionale- si è dovuto spendere non poco con la sua difesa di fiducia per far capire agli americani che le cose non stavano esattamente come riferito dalla stampa locale.
Il panorama è di quelli che lasciano incantati. Lo sguardo spazia a 360° in un susseguirsi di mare, monti e cielo. La Rocca domina l’intero Golfo di Policastro, dal campano Capo Palinuro, al tratto lucano di Maratea sino a Capo Scalea, estrema punta calabrese dell’enorme arco di costa che abbraccia tre Regioni, tre Province, una manciata di Comuni affratellati dal mare del Mito di Ulisse.
Le montagne ci sono tutte: il Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, le montagne lucane che fanno da corona alla breve ma intensa costa, quasi a voler ergere un invalicabile confine geografico. Alle spalle, verso nord-est, le estreme asperità nord-occidentali del Parco Nazionale del Pollino poste a guardia della riva calabrese. Imponente e misterioso al tempo stesso, se è vero che ancora ignoto rimane l’anno di costruzione, ascrivibile -per i canoni architettonici- tra il XII ed il XIII secolo.